giovedì 31 ottobre 2013

Fiorentina-Napoli: il commento

Cominciamo dalla coda, dal veleno. Il fallo su Cuadrado era da rigore. Netto, senza se e senza ma. Certo, si potrebbe obiettare che Cuadrado cade volando tipo tuffo a mare dopo e non per colpa del calcetto malandrino di Inler. Oppure, qualcuno potrebbe raccontare la storia di al lupo al lupo, sostenendo che i mille voli del colombiano gli sono costati l'idiosincrasia arbitrale a fischiargli il penalty. Eppure, questi sono discorsi che non tengono: il calcio di rigore era netto, andava fischiato. E forse, avrebbe rimesso le cose a posto in quanto a risultato.

Qui sta la nuova, inattesa grandezza della squadra di Benitez. Ricordate, in maniera immediata, qualche Napoli di Mazzarri vittorioso senza meriti, magari in una partita come quella di Firenze in cui la squadra è stata schiacciata indietro per buona parte del minutaggio? Esatto, no. Non potete, perchè il Napoli a cui eravamo abituati era una squadra in grado di vincere solo esprimendosi al meglio, con le frustate in ripartenza tipiche della squadra in salute difensiva e con bocche di fuoco accese in avanti.

Oggi, la musica è cambiata: il Napoli, forse, non meritava di vincere. Eppure, l'ha fatto. Forte dei suoi campioni, forte della sua capacità di resistere al gioco avvolgente dei viola, forte di una consapevolezza nei propri mezzi figlia del grande lavoro di Benitez. Forte, finalmente, anche di quell'esperienza nella gestione della gara e delle risorse che aveva sempre fatto difetto alle ultime edizioni degli azzurri. Il lancio di Mertens, poi, è stato un capolavoro del tecnico madrileno: il belga ex Psv è stato centellinato all'inizio, e ciò gli ha consentito un inserimento graduale e senza traumi. Poi è stato acceso come un barilotto di dinamite nei cartoni, con quelle micce lunghe che hanno solo poi amplificato il botto di una classe e una tecnica non comuni e ora riconosciute da fatti e rendimento. Ora il Napoli ha alternative concrete in avanti, con un centravanti come Higuain in grado di essere uomo assist e squadra e una batteria di supporto, con il capolavoro di mercato Callejon (sei gol per lui in stagione), che può addirittura concedersi il lusso di far addormentare Hamsik nel un suo classico periodo di appannamento (in ogni caso lo slovacco è a cinque gol in campionato, tanta roba). Con qualche pedina in più in difesa, questa squadra diviene non solo assolutamente eccezionale, ma anche pronta a correre per tutti i traguardi fino a maggio.

Dall'altra parte, senza fallo, la miglior squadra affrontata finora dagli azzurri. I viola hanno impressionato, molto più della Roma, per qualità di gioco e interpreti. Rossi è di un'altra categoria, Cuadrado deve solo limare eccessi, atteggiamenti ed esagerazioni tecniche e comportamentali. Smussati gli angoli, diverrà campione e fuoriclasse capace di spostare partite ed equilibri. Pizarro è sempre al top, Pasqual è il meglio che c'è in Italia sulla fascia sinistra. Con un Gomez in più e uno Joaquin con maggior minutaggio nelle gambe, questa squadra è da pienissima zona-Champions. Per essere da scudetto, manca qualcosa nel purissimo settore difensivo: Roncaglia non è un terzino destro, Savic può migliorare e Compper non vale il grande assente Gonzalo Rodriguez. Il vero top player, però, siede in panchina. Montella fa giocare bene la sua squadra sempre, senza dubbi o intermittenze. Il Napoli è stato schiacciato fin da subito con la forza d'urto del gioco, non con la forza d'urto e basta (Juve-style, per intenderci). Come detto, alcuni interpreti non hanno o non hanno ancora le qualità per sottendere in toto le idee dell'Aeroplanino, ma la sensazione è quella di una grande squadra riuscita ad esser tale soprattutto per la bravura di un allenatore serio, intelligente e soprattutto dalle grandi doti.

Peggiore in campo l'arbitro, e questo l'abbiamo già detto. Tra due grandi squadre, il vero sconfitto è lui. Appuntamento al ritorno: scommettiamo che assisteremo ancora ad una delle più belle partite del campionato?

C'è poco da stare Allegri o c'è poco da stare, Allegri?

Il vecchio gioco dei libri di grammatica per far capire l'importanza del posizionamento di una virgola in una frase. Un vecchio gioco che sintetizza in maniera perfetta il momento orribile del Milan, che impatta in casa con la Lazio e rimane impalato a dodici punti, a meno tredici (!) rispetto alla zona-Champions. Un vero disastro tecnico, societario e d'immagine. Una situazione difficile e difficilmente preventivabile che vede schierata, per la primissima volta, anche tutta la tifoseria in un fronte comune: quella del dagli a Max Allegri, allenatore rossonero.

Nella controversa esperienza del tecnico livornese sulla panchina del Milan, tantissime sono state le volte in cui si è parlato di esonero. Ad ogni inizio anno, per l'esattezza. Poi venne lo scudetto 2011, poi venne il bis sfiorato nel 2012, poi venne la rimonta-Champions dell'anno scorso. In tutta onestà, parlare di scenari come questi, adesso, rasenta la fantascienza. Oltre che l'incoscienza. Il motivo è facilmente individuabile: attualmente, il Milan non ha un'identità di gioco precisa, non è una squadra nel senso stretto del termine. Certo, grinta e attaccamento alla maglia non sono mai mancati, e testimoni di un atteggiamento positivo sono le rimonte completate (Bologna, Amsterdam) o abbozzate (Parma) di questo primo scorcio di stagione. Ma da sole, queste qualità non bastano più al tifoso milanista, stanco di una squadra incapace di produrre un gioco accettabile.

Nasce da qui la prima, storica contestazione ad uno dei tecnici preferiti dalla curva milanista, sempre indulgente verso l'allenatore livornese. Ok la solita, terrificante sequela di infortuni. Va bene anche per la qualità non eccelsa (eufemismo) di una difesa inadeguata, mediocre e pure al di là con l'età, e dell'improvviso letargo di un uomo chiave come Balotelli. Ma le giustificazioni finiscono qui, e si sa presto che quelle che non rispondono a fatti concreti si trasformano presto in alibi. Il Milan aveva un Supermario in più nel motore fin da inizio anno, aveva ritrovato De Jong, ha ripescato un Kakà non impresentabile, si ritrovata in casa un Robinho rigenerato e ha pescato dal mazzo un jolly forse non proprio da campioni, ma sicuramente affidabile coma Birsa (sei dei punti rossoneri sono tutti suoi: un 50% che fa riflettere). Eppure, non si è mai vista la squadra rossonera giocare bene, se non in alcuni spezzoni isolati di alcune gare. Cambi continui di formazioni, idee, combinazioni. Una punta con due trequartisti, due punte e mezza, tre punte reali, falso nueve e chi più ne ha più ne metta, in un'accozzaglia che non denota certo le qualità di piccolo chimico dell'allenatore, ma ne sottolinea più che altro la confusione mentale.

Ecco perché c'è poco da stare, Allegri. Il tempo a disposizione sembra ormai scarseggiare, ed è quasi certo che un altro passo falso in un altro scontro diretto (al netto di una classifica imbarazzante), quello con la super-Fiorentina di Montella, costerebbe la panchina a Max. Continuare con lui nonostante la sfiducia dell'ambiente sarebbe grande esercizio di fiducia e cocciutaggine, doti rare da trovare nel panorama dei rapporti società/panchine del calcio italiano. Doti che, però, nel caso di un rapporto logorato e mai pienamente sbocciato come quello tra Allegri e il Milan, potrebbero anche avere il risvolto sempre in agguato dell'autolesionismo.

Ma c'è anche poco da stare Allegri, senza virgola. Il cambio tecnico, oltreché rappresentare una sconfitta per tutto l'ambiente Milan, equivarrebbe ad un vero e proprio salto nel buio. Top coach liberi non se ne trovano, e la soluzione interna rappresentata da Inzaghi è affascinante quanto rischiosa. Più che sull'allenatore, quindi, il club rossonero dovrebbe meditare sulle sue pessime condotte di mercato, sull'incapacità perenne di conferire all'organico un equilibrio accettabile tra potenziale offensivo e difensivo, sulla difficoltà nel dotare la squadra di un elenco di calciatori in grado di assicurare un rendimento costante.

Ricordiamoci che il club più titolato al mondo, da un po' a questa parte, è sovente costretto a schierare gente come Constant, Zaccardo, e i pur non disprezzabili Zapata e Birsa. Siamo sicuri che sia proprio tutta colpa di Allegri?

martedì 29 ottobre 2013

Mazzarri: pregi e difetti

Premessa: Walter Mazzarri è uno dei migliori allenatori della Serie A. Lo dicono gli almanacchi, sacra bibbia depositaria dell'unica verità incontrovertibile del calcio, quella dei risultati. Anni e anni costellati di successi, di grandi stagioni, di squadre costruite ad un'immagine e somiglianza che prima o poi non poteva non contemplare un'esperienza nell'Olimpo della grande squadra. Nella fattispecie, l'Inter.

Eppure, qualcosa non quadra.

Spieghiamoci. C'è qualcosa, nella genetica delle squadre di Mazzarri, che sembra essere antitetica ai corredi delle grandi squadre in senso stretto. Quelle che vincono, per intenderci. Fateci caso: la bacheca di Mazzarri è riempita dalla sola Coppa Italia vinta col Napoli due stagioni orsono, e in più una promozione dalla B alla A col Livorno. Stop. Un po' pochino, ammettiamolo. Ok che il vate di San Vincenzo è giunto solo tre anni fa, col primo Napoli da corsa con Cavani in campo, alla guida di una macchina in grado di competere per le prime posizioni, ma è vero pure che le occasioni avute per centrare i bersagli grossi siano state non solo mancate, ma neanche lontanamente sfiorate. Lo scudetto del 2011 è stato annusato per qualche settimana causa sonno del Milan, quello dell'anno successivo è stato sacrificato sull'altare del noviziato Champions. Diktat presidenziale, ristrettezza dell'organico, immaturità ed inesperienza ad altissimi livelli, per quel Napoli. Non alibi, ma fatti documentabili e ampiamente documentati. Altro giro, altra corsa nel 2012/2013: l'impegno da contemplare era solo il campionato, data l'idiosincrasia (giustificata?) dichiarata del club azzurro all'Europa League e l'abbandono precoce dalla Coppa Italia. Eppure il Napoli è parso acerbo anche stavolta, poche volte in grado di competere direttamente, occhi negli occhi, con la Juventus. Poi questa Inter, sensazione positiva in avvio e poi tipica squadra mazzarriana, bella e brava a tratti e poi grande incompiuta nei match che fanno da travi portanti ai campionati vinti (Cagliari e Bergamo proprio stasera, al di là della sconfitta con la Roma di Garcia).

Perché? A Napoli alcuni tacciavano Mazzarri di provincialismo, di incapacità di trasformarsi davvero in top coach, in allenatore da grande squadra capace di gestire con acume e tranquillità le incombenze di una stagione da vertice, dalla prima alla trentottesima coppe annesse. Forse la critica è esagerata nei termini, ma non lo è nella sostanza: anche a Milano, il mister livornese non riesce a venire a capo di gare difficili, ma che una grande squadra deve affrontare aspirando ad una vittoria che sia netta, indiscutibile, violenta nella sua spietata certezza. C'è sempre un'idea latente di sofferenza e di ansia, anche in partite vinte in maniera relativamente facile. Esempio, Inter-Verona. E' sempre incombente l'ansia di non riuscire a portare a casa la partita: le squadre di Mazzarri, per vincere, hanno bisogno di esprimersi al massimo. Al cinquanta per cento, è molto difficile che si vinca o si segni al netto di qualche estemporanea invenzione dei campioni in campo. Eppoi, i difetti storicamente riconosciuti al mister: testardaggine sul modulo, cronica sfiducia nei confronti di giovani ed alternative (una coppia d'attacco Palacio-Icardi dal primo minuto non scatenerebbe alcuno scandalo politico) e ripetitività nei cambi  e nelle variazioni a partita in corso.

Il quadro che viene fuori è quello del tecnico capace di avviare i grandi cicli, ma incapace di chiudere il cerchio della gloria con una vittoria. Vedasi Sampdoria e Napoli. Probabilmente, Mazzarri ha già dato all'Inter ciò che i nerazzurri più sbandati di sempre gli avevano messianicamente chiesto: un'identità di gioco, un'idea almeno parvente di gruppo unito, il recupero di alcuni calciatori, l'invenzione-riscoperta di altri (questi Alvarez e Jonathan valgono da soli una medaglia al valore calcistico), uno spirito combattivo e una condizione fisica, al netto dei normali contrattempi fisici, almeno presentabile. Il problema è che l'Inter, la grande blasonata che Mazzarri aveva sempre invocato ed inseguito (ricordate il matrimonio estivo con la Signora prima del divorzio in contumacia e l'arrivo di Conte? Era il 2011...), non sa e non può accontentarsi di questo. Per quest'anno forse sì, ma per gli altri occorrerà attrezzarsi. Il dubbio è proprio questo: Mazzarri sarà in grado di essere Mazzarri anche quando ci sarà da vincere in senso totale? Al tempo, ai posteri e al pallone l'ardua sentenza...

domenica 27 ottobre 2013

Napoli-Torino: il commento

Non sarà ricordata come una delle più grandi partite azzurre, questa interna col Torino. Eppure, è attraverso gare come questa che si costruiscono le grandi stagioni. Due a zero in surplace, con doppietta del Pipita Higuain su calcio di rigore, e tre punti portati a casa con la semplicità della grande squadra.

Sintesi veloce ma performante, efficace, cinica. Tre aggettivi che possono tranquillamente calzare anche al Napoli del lunch match visto contro i granata: il merito principale di Benitez è quello di aver saputo iniettare negli azzurri la mentalità della squadra di rango, capace di mettere spalle al muro l'avversario senza ricorrere ad assedi e o sfuriate. Con la classe, la calma. Qui sta il Napoli performante dei primi minuti. Poi c'è l'efficacia, che nasce dall'ormai completo inserimento del folletto Mertens negli schemi: è suo il palleggio volante che costringe l'ingenuo Bellomo a sgambettarlo in piena area. Rigore sacrosanto, trasformato da Higuain. Poi c'è il cinismo, che ti porta a non cristallizzarti nel vantaggio ma a cercare senza ossessività il raddoppio. Il secondo rigore nasce da questo atteggiamento, nuovo per gli azzurri, e insieme dalla pochezza offensiva del Torino, assolutamente azzerato dal vantaggio azzurro. Il fischio per il fallo di mani a Glik è dubbio se non quasi inesistente, ma Higuain non si fa intenerire e trasforma ancora.

Da qui, fine della cronaca e inizio dell'analisi. La partita vera finisce qui, perchè il Torino sceso al San Paolo sperava di emulare il Sassuolo e costringere gli azzurri agli assedi finali sul punteggio di parità. Nulla di tutto questo, per i motivi sopra descritti e per la capacità tutta nuova del Napoli di aggirare le difese con la forza di un gioco vario e multisfaccettato, e non più tramite il solo ritrito spartito. Gara condotta in porto con la calma dei forti, con un terzo gol ripetutamente sfiorato e con la quasi totale inoperosità di Reina e pacchetto difensivo. Gli unici pericoli portati dal Torino sono nati da tiri da fuori e o da momenti estemporanei della gara.

Gli uomini in campo, nonostante la sfida di Marsiglia nelle gambe, hanno risposto benissimo alla sollecitazione della terza gara in poco più di una settimana. Mertens ancora tra i migliori, bene anche Inler e Albiol. Un po' arruffone Insigne, mentre i top player Hamsik e Higuain vivono un letargo vigile: il primo, in un periodo di scarsa brillantezza, si insinua nelle trame ma non graffia, il secondo paga ancora l'infortunio ma gioca per la squadra e fa il suo dovere dal dischetto. Buone notizie dalla difesa, o meglio, da ciò che ne rimane: Armero deve solo aggiustare i piedi, Fernandez è apparso un pizzico più sicuro.

Sotto col tour de force, ora: c'è la super-Fiorentina da affrontare, e non sarà facile. La squadra viola opporrà agli azzurri il suo gran gioco e il momento di forma mista ad euforia dopo tre ottime vittorie consecutive. Si scende in campo a stanchezza pari (anche la squadra di Montella è impegnata in Europa) e col conforto di una classifica che, Roma a parte, non è scintillante solo per l'inghippo-Sassuolo. Ma c'è tutto il tempo di rimediare, e le promesse per farlo ci sono proprio tutte.

sabato 26 ottobre 2013

Scene da un Clasico

Al fischio finale, è come alzarsi dalla tavola di una domenica napoletana. Sazi, saturi, satolli. Di calcio, non di cibo come nella metafora di paragone, ma la sensazione è comune, è similare. Un'overdose di spettacolo pallonare.

Il risultato al novantesimo dice due a uno per il Barcellona, con tanti cari saluti alla nuova imbattibilità del Madrid (cinque gare senza sconfitte contro gli azulgrana) e un bentornato ad Alexis Sanchez, l'uomo che più di tutti ha goduto della cura di Tata Martino. 

Il verdetto del Camp Nou è chiaro: al momento, il Barça è più squadra. I ragazzi di Martino sono più compatti, giocano d'insieme e fa niente se a livello di gioco siamo ancora sotto il 50% delle reali, immense possibilità della squadra. Il nuovo corso non prevede, o meglio, non prevede solo gli exploit di gioco di possesso cari ai predecessori Guardiola e Vilanova: si professa e si professerà calcio più raziocinante, più concreto, forse meno spettacolare, ma sicuramente più efficace e meno per i fotografi. E' roba diversa: una roba che però, i blaugrana, paiono aver fatto già propria. Siamo ancora all'inizio della corsa, ma i meriti del misconosciuto tecnico argentino sono già sotto gli occhi di tutti: squadra non più stressata dalla doppia esasperante fase possesso-pressing, qualche veronica in meno, qualche verticalizzazione in più. In questo modo, Messi forse gioca meno da solo, duetta e tocchetta senza esagerazioni. Ma la squadra pare averne guadagnato in armonia ed autostima. 

Esatto, proprio autostima: prendete Neymar e Sanchez, i due goleador dell'incontro. Con il vecchio Barça, il giovane fenomeno ex Santos avrebbe mai potuto imporsi così fin da subito? Avrebbe mai potuto sentirsi immediatamente al centro del progetto tattico della squadra, o avrebbe dovuto pagare dazio alla legge-dittatura di Messi e alla necessità di passare per forza da lui nella strada che porta al gol? Chiedere a Ibra. Chiedere, per l'appunto, a Sanchez: il Nino Maravilla ha avuto subito parole al miele per il nuovo allenatore, capace di rigenerare lui a la sua autoconsiderazione. Nonostante la panchina iniziale, l'ex folletto dell'Udinese è entrato e ha regalato al Camp Nou un gol sontuoso, un meraviglioso pallonetto a scavalcare Diego Lopez. Un calciatore privo della necessaria fiducia sarebbe in grado di avere tale impatto in una gara così importante? Esatto, la risposta è no. Bravo Tata: stai riuscendo nell'impresa più difficile. Normalizzare il Barcellona.

Dall'altra parte, il Madrid. Come già sostenuto su queste frequenze, la ciurma di Ancelotti pare tale solo di nome. Il Real di oggi è un'accozzaglia di figurine, al momento priva di quella coesione tattica e d'intenti che fa grande una squadra di calcio. Analizzando la partita, la differenza sostanziale tra le compagini sta proprio qui: il numero di occasioni è quasi pari (il palo colpito da Benzema trema ancora, mentre Valdes si è dimostrato super in almeno un paio di circostanze), ma lo scarto sta proprio nella capacità di gestire d'insieme il momento topico della partita, quello del vantaggio firmato da Neymar. Il Barça ha continuato a giocare tranquillamente, da squadra in senso stretto, mentre il Real è parso assolutamente innocuo nella sua veste senza attaccanti di ruolo. Ancelotti dovrà lavorare molto per trovare la quadratura del cerchio, e la ripresa fatta di sfuriate appena dopo l'inversione tattica conferma una volta di più la necessità merengue di superare l'effetto-Bale (impalpabile, il gallese) e di inquadrare il suo acquisto in un sistema di gioco coerente. Che non può ovviamente prescindere da Ronaldo, ma tantomeno da Benzema o Di Maria.Sta qui il lavoro dell'uomo di Reggiolo: rendere squadra un gruppo ancora non degno di chiamarsi tale. Riuscire, insomma, dove addirittura Mourinho, incredibilmente bruciatosi nella folle corrida di un ambiente da paura, ha fallito. In bocca al lupo, Carletto...

giovedì 24 ottobre 2013

De Canio per Maran: liofilizzato di calcio all'italiana

Confrontiamo: Catania giugno 2013 con Catania ottobre 2013. Parliamo di calcio, ovviamente.

Giugno 2013: i rossoazzurri di Maran terminano il campionato all'ottavo posto, addirittura davanti all'Inter, cogliendo il record di punti in Serie A e mettendo in mostra uno dei collettivi più affiatati ed invidiati dell'intera serie A. Un inno alla continuità, alla sagacia, all'intelligenza della gestione etnea, capace di assorbire l'addio di Montella (giugno 2012) e di partorire una stagione ancora migliore, e dal punto di vista del gioco, e dal punto di vista dei risultati. 

Ottobre 2013: Pulvirenti, dopo l'eloquente score di cinque punti in otto partite, decide di esonerare Maran. Ovvero, l'allenatore di cui sopra, quello del record di punti, dell'ottavo posto eccetera eccetera. Un rimbecillimento improvviso, una tegola in testa o cos'altro? No, per fortuna per la sanità mentale e fisica del presidente. Semplicemente, la dura legge del calcio italiano, ovvero zero riconoscenza e memoria corta, cortissima. 

Lo scarsocrinito tecnico di Rovereto paga l'improvvisa involuzione della squadra, incapace di produrre un gioco accettabile e soprattutto risultati, pur essendo stata adeguatamente rinforzata in estate. Ok, smettiamola di fare i paraculi. Quali rinforzi ha avuto il Catania? Lodi è stato sostituito con Tachtsidis, uno che solo Zeman ha saputo vedere in quattro anni di calcio italiano. Papu Gomez, trascinatore etneo nelle ultime annate, è invece stato sostituito con Sebastian Leto, uomo da zero presenze l'anno scorso al Panathinaikos di Atene. Peruzzi e Monzon, i sostituti di Marchese, infine, hanno fin qui avuto la consistenza delle meteore: un passaggio e via. Un solo arrivo decente, Jaroslav Plasil. E a pagare, ovviamente, è il tecnico.

Il grande problema del calcio italiano sublimato in un caso singolo e singolare: quali colpe ha Rolando Maran nell'involuzione totale del suo Catania, se non quella di aver sostituito i migliori uomini della sua squadra con calciatori non ancora all'altezza dei predecessori? Fa niente se a condurre la campagna acquisti è la società: la colpa è e resterà sempre del tecnico, in un misto di irriconoscenza e incapacità di attendere una nuova amalgama e miglioramenti che solo il tempo potrà rendere possibili. Il tecnico è colpevole, punto e basta: nonostante il gran gioco dell'anno precedente, nonostante le buonissime referenze, nonostante tutto. E' l'Italia, baby, prendere o lasciare. E se Ferguson, al Manchester United, ha impiegato tre anni e mezzo per vincere un trofeo, noi vogliamo tutto e subito. Perchè siamo in Italia, e non sappiamo e non vogliamo aspettare. Anche se la colpa è solo nostra, come nel caso del buon Pulvirenti.

E in tutto ciò, il nuovo arrivato? Gigi De Canio, allenatore tosto, tipico gestore di squadre col solo compito di salvarsi. Il buon ex di Napoli, Reggina e molte altre, ha già sancito il nuovo corso etneo, predicando il necessario "ritorno all'umiltà" della compagine rossoazzurra. Come a dire: preparatevi ad un campionato di lotta, in cui ci accontenteremo anche dell'uno a zero conquistato a barricate. A salvezza ottenuta, si spera per i catanesi, tutti contenti. Ma con l'amaro in bocca: l'Italia è questa, baby. Ma è detto, confermato e sottoscritto da qualcuno che debba per forza andar bene così? Non è che forse stiamo sbagliando qualcosa?

mercoledì 23 ottobre 2013

Ibra, Pep, Cristiano Ronaldo: il report del Mercoledì di Coppa

Completata la tripla italiana: vittoria del Napoli, pareggio del Milan e sconfitta per la Juventus, per un 1X2 che lascia con l'amaro in bocca soprattutto i tifosi bianconeri. Il Real che ha battuto la squadra di Conte è lontano anni luce da una possibile e plausibile configurazione galactica, ed ha avuto bisogno di un paio di aiutini arbitrali per non rischiare la figuraccia interna. Per carità, nulla di scandaloso: il rigore di Chiellini è inconcepibile solo per noi italiani, leader mondiali nella corsa alla trattenuta in area, ma l'espulsione è parsa a tutti una palese ingiustizia. Da lì, partita in ghiaccio e qualificazione, ora, davvero difficile per i bianconeri.

Senza le nefandezza arbitrali, sarebbe cambiato qualcosa? Chissà. La sensazione avvertita al Bernabeu, comunque, è confortante: il Real odierno fa paura solo per i nomi in campo, non è ancora una squadra in senso stretto, e vive dell'estemporanea genialità dei suoi talenti. La cura-Ancelotti non ha ancora attecchito, ma se hai un Cristiano Ronaldo così (e l'ha confermato anche il buon Carletto ai microfoni del dopopartita) nulla è precluso nemmeno ad una squadra praticamente ancora al 50% delle sue immense possibilità. La Juventus esce sconfitta, ma non con le ossa rotte: con una prestazione simile, fra quindici giorni, l'impresa casalinga non è impossibile. Basterà recuperare le energie mentali e la grinta che, dopo due anni vissuti con la bava alla bocca, sembrano fisiologicamente mancare. Poi occorrerebbe un Tevez non più schiavo del suo complesso-Champions, ed ecco una Juventus in grado di battere il Real Madrid e riaprire un discorso qualificazione fattosi difficile dopo il prevedibile exploit interno del Galatasaray di Mancini (3-1 al Copenaghen con gol degli assi stranieri Felipe Melo, Sneijder e Drogba).

Se i bianconeri annasperanno per entrare negli ottavi, ecco chi è già praticamente sicuro del pass: il Bayern di Guardiola, il Manchester United e il PSG di Blanc. I tedeschi annientano la flebile resistenza del Viktoria Plzen (e qui giù gli incubi europei dei tifosi del Napoli) con una prestazione Tiki-Taken style, quasi ai livelli del miglior Barcellona targato Pep. Il cinque a zero finale, pur considerando lo scarsissimo spessore dell'avversario, è a dir pochissimo riduttivo se comparato alla mole di gioco e di occasioni costruite dai bavaresi. E abbiamo detto tutto. Non altrettanto semplice la serata di Moyes ad Old Trafford: l'istantaneo autogol della Real Sociedad pareva aver aperto una serata da corrida a Manchester. Nulla di più falso: i baschi hanno saputo rientrare in partita, e più volte hanno spaventato De Gea. La qualificazione è ormai ipotecata, ma è forte il sentore di lavori ancora in corso per il successore di Ferguson sulla tolda di comando dei Red Devils.

E chiudiamo col grande protagonista della serata, Zlatan Ibrahimovic. Ok che l'Anderlecht, avversario del suo PSG, rasentava l'impresentabilità. Ma è vero pure che lo Zlatan di questo mercoledì di Coppa fa quasi impallidire quel Van Basten che aveva reso indimenticabile la stessa serata al ragionier Fantozzi qualche anno fa. Quattro gol quattro, con dentro il repertorio completo dell'attaccante-genio: la zampata d'opportunismo, il colpo di tacco, l'incredibile sediata dalla trequarti e il diagonale che chiude il poker e lancia Zlatan nell'olimpo dei grandi nella storia della Champions. Che sia, per lo Zlatan ossessionato dalla Champions, l'insospettabile anno buono?

martedì 22 ottobre 2013

Marsiglia-Napoli: il commento

Il Napoli di Benitez sublimato in novanta minuti. Questa, in soldoni, la didascalia della partita del Velodrome. Un Napoli brioso, frizzante, in grado di attaccare spazio, campo ed avversari come di concedersi imbarazzanti pause e momenti di sbandamento. Una squadra ancora col cartello dei lavori in corso, ma destinata a dire la sua, fino al fischio finale dell'ultima gara a disposizione, in Italia ed in Europa.

Serviva una risposta dopo la brutta partita di Roma: è arrivata. In trasferta, in campo europeo, seppure contro una squadra nettamente inferiore. Il Napoli ha saputo rialzarsi, mettendo in mostra il meglio del suo repertorio offensivo, sciorinando un calcio a tratti anche piacevole e soffrendo poco o nulla, se non la pressione di un cronometro diventato improvvisamente lento dopo il gol di Ayew. Eccezionale la gara di Behrami e Inler, strepitosa prova di qualità e velocità di Mertens, bravissimo Callejon a farsi trovare pronto. Higuain soffre il periodo di confusione muscolare, e si vede quando si trasforma in Pandev e si divora il gol a tu per tu con Mandanda. Non si è campioni per caso, però: l'apertura per Callejon in occasione del vantaggio vale quasi più della felice conclusione dello spagnolo, e sottolinea una volta di più le qualità di calciatore, oltreché di attaccante puro, del Pipita ex Real Madrid.

Le note liete, poi, si allargano a Zapata, o meglio Duvàn: l'ex Estudiantes preferisce così. Dopo i mugugni in stile Edu Vargas per un approccio complicato all'avventura partenopea, il colombiano si sblocca con un gol da favola, improvviso e accecante come un lampo. Non sappiamo ancora se il Napoli ha imbroccato il terno e scovato una stella, ma di certo, ora, l'acquisto del numero 91 azzurro ha un po' meno il sapore dell'assurdità di mercato. Con questo pieno d'entusiasmo e questo gol, forse, anche le future assenze di Higuain faranno tremare meno i polsi ai tifosi.

Tante buone notizie per Benitez che conclude il quadro del sorriso con la prestazione senza sbavature della difesa, sostanzialmente tranquilla per tutto l'incontro. Un peccato il gol a sorpresa di Ayew, a cui è stato concesso ingenuamente troppo spazio per tentare, ed indovinare, l'unica conclusione a rete dell'intera partita dell'OM. Gli azzurri hanno ritrovato lo smalto parso perduto contro la Roma, e stavolta sono stati meno sfortunati che all'Olimpico, quando avevano sbagliato lo stesso numero di occasioni ed erano stati puniti da Pjanic con un velenoso calcio piazzato. Il Marsiglia non ha oggettivamente la stessa qualità dei giallorossi, e tantomeno ha avuto uguale fortuna. Il Napoli, però, deve ben guardarsi dall'essere così poco cinico in attacco (in questo aiuterà sicuramente il recupero totale, si spera veloce, di Higuain) e a volte poco lucido in difesa. Una volta superati questi comprensibili difettucci di lavorazione iniziale, tutti dovranno star attenti a questa squadra, a cui - è bene ricordarlo - manca anche il miglior Hamsik. Se vince anche adesso, quando è ancora in rodaggio, figuriamoci dopo... La città di Napoli, ci scommettiamo, potrà davvero sognare in grande per la fine di questa stagione.

domenica 20 ottobre 2013

La Juventus che non ti aspetti

Volevamo uscire domani col nostro consueto Day After, ma l'eccezionalità della domenica ci impone di aprire subito una riflessione. Ovviamente, sulla partita principale della giornata, l'incredibile vittoria per quattro a due della Fiorentina sulla Juventus.

Cominciamo col dire che è stata una partita da rifarsi gli occhi. Per tutti, al di là di colori e fedi. La partita è stata bella per il suo svolgimento, per il suo improvviso sconvolgimento, e perdonateci il gioco di parole assonanti. La Juventus è stata premiata forse oltremodo nel primo tempo, con due episodi di ingenuità colossali della Fiorentina modalità difensiva, per poi pagare la legge del contrappasso nella ripresa e vedersi scaricata addosso la pioggia di tecnica e gol firmata Pepito Rossi. Un blackout clamoroso, quindici minuti incredibili date soprattutto le qualità storiche dei bianconeri di Conte, concentrazione, grinta e capacità di non mollare mai.

Proprio quello che è venuto meno in un match che pareva già archiviato, come insegnavano i campionati precedenti. Da qui il titolo: questa Juventus, forse, comincia a pagare l'eccessivo carico di tensione psicologica somministratole da Conte a partire dall'estate 2011. Non è più una squadra in grado di stritolare di forza l'avversario, non riesce più ad aggredire con le consuete veemenza e ferocia agonistica. Neanche nel primo tempo, conclusosi sullo zero a due: la partita viveva sul filo dell'equilibrio, con due squadre poco propense a svolazzi offensivi . La Juventus non azzannava come suo solito, e paradossalmente sarebbe stato meglio, per i bianconeri, non terminare il primo tempo in vantaggio. In modo da ripetere le gare con Chievo, Verona, Inter, Galatasaray, Copenaghen, e usare la rabbia dello svantaggio o della partita da sbloccare per rimettere in carreggiata il risultato. La Juve che non ti aspetti sta proprio in questo: in un'incapacità tutta nuova, per la squadra di Conte, di gestire una partita senza la necessità di essere feroci nella rincorsa, fieri nella rimonta, senza la pressione addosso. Se poi energie fisiche e mentali, ancor più prosciugate da due anni vissuti al massimo, vengono meno, ecco partite incredibili come questa.

I meriti viola, poi: la partita era compromessa, autolesionata dai due strafalcioni di Rodriguez e Cuadrado. Montella l'aveva preparata bene, per poi vedersela sfuggire di mano solo per errori tecnici. La peggior situazione possibile per una squadra di calcio Eppure, è bastato un episodio singolo per riaprire i giochi. I viola sono tornati in partita in un batter d'occhio, e Rossi ha saputo caricarseli sulle sue spalle grosse di tecnica e capacità realizzativa. La sfrontatezza di Montella, con quel demonio di Mati Fernandez e l'ingresso anche di Joaquin ha fatto il resto. Da qui l'indelebile quarto d'ora della rimonta, da qui la tripletta di Pepito, da qui il gol di un Joaquin finalmente recuperato alle sue migliori espressioni. Istantanee di un pomeriggio da sogno colorato di viola. Polaroid di un incubo per la Juventus...

sabato 19 ottobre 2013

Roma-Napoli: il day after

Cosa viene fuori dalla notte dell'Olimpico? Uno, che la Roma è una squadra terribilmente cinica, organizzata ed è prontissima a lottare per lo scudetto da qui a maggio prossimo. Due, che il Napoli non esce affatto ridimensionato dal primo scontro al vertice del suo campionato.

La partita di ieri, se riletta dai semplici almanacchi, può apparire come una sentenza pulita, secca, senza appello. Due a zero e Napoli ricacciato a meno cinque, ottava vittoria su otto partite disputate e guanto di sfida-scudetto lanciato da una Roma ora favorita principale nella corsa al titolo e contro la Juventus. I dati di fatto, di giubilo per i giallorossi, di delusione per gli azzurri, sono questi.

Eppure, c'è molto di più. La Roma ha vinto perchè ha saputo essere più squadra nei momenti topici dell'incontro. L'uscita anticipata di Totti, la sofferenza dell'ultimo quarto d'ora del primo tempo e la fase di forcing del Napoli dal primo minuto della ripresa fino al rigore fischiato a Borriello. In questi frangenti, la Roma ha sotterrato il fioretto, si è rintanata e ha offerto la miglior versione possibile del calcio all'italiana, difesa e contropiede. Senza vergogna, conscia delle proprie qualità. Da grande squadra, destinata a dire la sua fino alla fine. Per merito di Garcia, della sua organizzazione capillare, semplice quanto efficace, e poi di un gol magico disegnato da Pjanic, ovvero l'elogio al contrario a Zeman, unico uomo al mondo capace di preferirgli addirittura il buon Tachtsidis. La punizione del bosniaco ha dischiuso alla Roma le porte della partita perfetta: Napoli in avanscoperta e possibilità di imperversare in contropiede. Da qui nasce il 2-0, con un rigore che ci può stare, e da qui riparte la corsa finora perfetta colorata di giallorosso.

Il Napoli, poi. La squadra di Benitez ha perso non perchè inferiore ai giallorossi, ma perchè priva di alcuni uomini chiave e incapace di essere realmente pericolosa quando l'avversario è chiuso a riccio. Gli uomini chiave, o meglio i loro forfait, si sono visti nei momenti topici del primo tempo: senza colpo ferire a Pandev o Insigne, ma secondo voi Higuain avrebbe mai sbagliato le macroscopiche palle-gol capitate ai due compagni di cui sopra? Dubitiamo. Eppoi, Cannavaro: non sapremo mai se Britos avrebbe fatto meglio di lui (non difficile, comunque, date le due perle al contrario del capitano azzurro, colpevole di ingenuità su entrambi i gol giallorossi), ma attualmente è un giocatore non in grado di offrire un rendimento accettabile. La mancanza di un centrale di livello almeno avvicinabile ad Albiol era uno dei problemi più evidenti dell'organico azzurro, e la gara con la Roma è lì a dimostrarlo.

Di buono, per gli azzurri, il frangente che va dall'uscita di Totti fino al rigore dello zero a due. Si è visto un Napoli arrembante, dal buon possesso e dagli ottimi automatismi: eppure, sta qui il secondo problema di cui sopra. Gli azzurri arrivano facilmente ai sedici metri avversi, per poi perdersi in mille tocchetti senza risoluzione finale. Con Pandev, la squadra acquista in palleggio puro ma perde in profondità, e contro squadre che sanno chiudersi, come la Roma o il Sassuolo di qualche settimana fa, e in situazioni di pressione, questa mancanza diviene letale. Con Hamsik così in letargo, poi, la situazione diventa ancora più grama.C'è da ricomporsi per il Marsiglia e per la ripartenza in casa col Torino, e non bisogna abbattersi: di squadre forti e ciniche come la Roma, in questa Serie A, ce n'è poche.

In sintesi, i tre punti giallorossi sono giusti per quanto visto in campo. Eppure, i due gol divorati dal Napoli sullo zero a zero gridano vendetta. Per la sfida del ritorno, per tutto un campionato da giocarsi fianco a fianco, per una lotta-scudetto che, ci scommettiamo sopra, non potrà prescindere da queste due realtà.

venerdì 18 ottobre 2013

Roma-Napoli: quando l'antipasto vale più di tutto il pranzo

Due settimane dopo l'ultima volta, con  in mezzo gli insuccessi azzurri, torna finalmente il campionato. E questa, in sé, è già una notizia. Ma se poi il campionato decide di ritornare con Roma-Napoli, ovvero col botto, allora siamo di fronte ad un momento bello ed importante, non decisivo ma sicuramente indicativo nella storia di questa stagione calcistica.

La sfida tra giallorossi e azzurri vale tanto, tantissimo. In termini squisitamente pratici, perché le squadre in campo sono rispettivamente, e meritatamente, prima e seconda della classe. In termini storici, perché riapre dopo un'infinità di anni la strada di vertice a due realtà fondamentali per il calcio italico. In termini futuri, perché designa e designerà, col risultato finale, la prima vera antagonista al monopolio juventino sul campionato.

Abbiamo taciuto tanti altri motivi di interesse: la storica e malinconica (negli anni ottanta giallorossi e azzurri davano vita al gemellaggio più bello d'Italia) rivalità tra le tifoserie, il duello tra due allenatori nuovi per i nostri lidi (il Benitez dell'Inter è poco più di una parentesi), la sfida tra Florenzi e Insigne e Totti e Higuain, ovvero il nuovo che avanza e i top player su cui fare affidamento. Mille sfaccettature per un incontro-kolossal, che avrà un Maradona in più sugli spalti e indirizzerà e rintuzzerà la corsa al titolo delle due squadre che più hanno impressionato in questo primo scorcio di stagione.

L'analisi tattica fa presagire un incontro da tripla, incerto anche sullo svolgimento. Potrebbe essere scintillante e ricco di gol quanto privo di emozioni e parente stretto se non gemello di uno zero a zero. La Roma, in questa stagione, non ha mai affrontato una squadra come gli azzurri, ovvero orientata al possesso palla e agli interscambi di posizione in ogni zona del campo. E soprattutto, non ha ancora incontrato una grande squadra che offenda in questo modo: l'Inter di Mazzarri ha preso tre gol a San Siro perché non è, o non è ancora, una squadra in grado di gestire una partita. La Roma attendista di Garcia l'ha infilzata praticamente in casa sua, nelle praterie invece più affini ai nerazzurri, quelle del contropiede. Il nuovo Napoli di Benitez, invece, è parsa una squadra in grado di gestire il pallone per novanta minuti, di offendere indifferentemente al centro o sugli esterni (un peccato, in questo senso, il forfait di Zuniga) e che soffre solo quando è costantemente attaccata, vedasi Londra con l'Arsenal e il quasi dominio nella prima di Champions col Dortmund, squadra per caratteristiche simile ai giallorossi edizione 2013/2014.

Insomma, prepariamoci in ogni caso ad un grande match, che rispolvera il valore un po' scaduto della nostra Serie A e riconsegnerà al grande calcio, e presumibilmente alla lotta scudetto, due piazze reduci da troppi anni di delusioni e o vittorie solo accarezzate. L'antipasto migliore per il ritorno del campionato. Un antipasto che vale più del pranzo intero...

giovedì 17 ottobre 2013

Il ranking a capocchia e i nostri demeriti

Necessaria premessa: se siamo fuori dalle teste di serie della ventura Coppa del Mondo, tra l'altro a quasi quarant'anni dall'ultima volta, è solamente colpa nostra. Dovevamo battere una tra Danimarca e Armenia. Una sola, non entrambe. E se può passare per il due a due a Copenaghen, non passa per un altro malinconico due a due, quello del San Paolo di Napoli contro una squadra di semiprofessionisti o quasi. Paghiamo la scarsa concentrazione e l'atteggiamento tutto italiano di risparmiarsi quando le partite valgono poco, paghiamo l'idiosincrasia prandelliana alle amichevoli, paghiamo forse anche l'eccessivo carico mediatico attorno ad un solo calciatore piuttosto che ad una partita di calcio (Balotelli docet).

Paghiamo, paghiamo, paghiamo e siamo fuori dal G8 edizione calcistica. Eppure, in ogni caso, c'è qualcosa che non va. E non dipende da noi.

Leggiamo tutto d'un fiato le famose magnifiche otto: il Brasile paese ospitante, e ci sta. Poi l'Argentina di Messi e la Spagna pluricampione di tutto, e ci mancherebbe. E poi, Germania, Colombia, Svizzera, Belgio e Uruguay. Passi per i tedeschi, nonostante le fresca vittoria alle semifinali europee 2012 e le zero vittorie contro di noi da tempo immemore. Ma per colombiani, svizzeri, belgi ed uruguagi come la mettiamo?

Quali sono i criteri che li pongono davanti a noi? Nella creazione del ranking Fifa vengono assegnati punti in base a cinque parametri: il risultato, la data, l'importanza della partita (amichevole o qualificazione), il valore dell'avversario e della confederazione di appartenenza. L'Italia è quindi scesa dal quarto al nono posto, dietro anche all'Olanda, a causa degli scarsi risultati nelle ultime amichevoli (quattro vittorie nelle ultime diciassette, tanto per gradire) e per le ultime defaillance in un girone dominato e concluso da imbattuti. Un vero peccato.

Eppure, c'è da storcere il naso. La Svizzera è risultata assente all'ultimo Europeo, l'Uruguay deve addirittura ancora qualificarsi, mentre Belgio e Colombia mancano all'appuntamento mondiale, rispettivamente, da dodici e sedici anni. Eppure sono davanti, in questi fantomatici coefficienti, ai Campioni del Mondo di appena due coppe fa, ai vicecampioni d'Europa uscenti e ad una squadra che ha terminato con zero sconfitte gli ultimi due gironi di qualificazione. Una palese ingiustizia, insomma, in un conteggio ranking che di certo non sa (o non vuole...) rendere giustizia non tanto al prestigio delle varie rappresentative, ma anche ai reali valori in campo. Ok che non siamo ai nostri massimi storici come Nazionale di calcio, ma è vero pure che non pariamo essere tanto più scarsi di una Svizzera, di un Belgio o di un Uruguay. Specie se affrontati in partite dal valore reale e non solamente platonico.

Eppure, il regolamento, giusto o sbagliato che sia, è stato firmato, controfirmato ed accettato. Anche da noi, che poi ne abbiamo subito in prima persona la parte forse più meschina e controversa.

Ora, lecchiamoci le ferite e prepariamoci ad un (probabile..) girone mondiale di ferro. Che poi, dopo i recenti trascorsi sudafricani, chi ha detto che debba essere per forza una iattura?

martedì 15 ottobre 2013

Dalle bombe ai Mondiali: la favola della Bosnia

Lasciamo un attimo da parte i discorsi su Balotelli, la pessima prestazione di un'impresentabile Italia con l'Armenia e l'indonesizzazione della nuova Inter by Thohir.

Facciamoci avvolgere dal bello del calcio, dalla sua forza devastante, e raccontiamo una favola romantica di pallone. Quella della Bosnia, approdata per la prima volta alla Coppa del Mondo di calcio. Raccontiamo di quel pallone che fa la Storia non solo sportiva, e che riesce laddove hanno fallito la politica internazionale, la tattica militare e le incredibili facoltà autodistruttive dell'essere umano.

Neanche vent'anni fa, Sarajevo e dintorni erano squassati da una guerra civile ancora difficile da spiegare e raccontare. L'indipendenza raggiunta a fatica, i contingenti dei paesi del mondo che garrivano al vento la bandiera della democrazia e intanto sparavano, e non in modo metaforico, sul sogno multietnico di una nazione ai primi vagiti. Oggi, il calcio dà un colpo di spugna alla storia, cancella l'ultima riga e manda nella terra del football più sereno e divertente, il Brasile dei prossimi Mondiali, la squadra figlia di quegli anni così difficili.

Il sogno della Bosnia, nazionale dalla storia giovane (esordio ufficiale, 30 novembre 1995 in una gara-simbolo contro l'Albania), ha avuto la sua alba di realtà nella serata del 15 ottobre. Giusto iersera. La vittoria di misura colta a Kaunas, in Lituania (gol di Vedad Ibisevic nel secondo tempo) è stata solo l'ultima impresa di una squadra capace di mettere in cascina venticinque punti su trenta disponibili, con l'invidiabile score di otto vittorie, un pareggio ed una sconfitta. Qualificazione sacrosanta, meritata, arrivata all'ultimo tuffo solo per la strenua resistenza opposta dalla Grecia, arrivata addirittura a pari punti ma seconda dopo lo spoglio della classifica avulsa.

Tecnicamente, la vittoria della squadra del CT Susic, una vera leggenda a Sarajevo, non sorprende più di tanto i critici: lo stesso Ibisevic, Dzeko, Pjanic, Lulic, Salihovic sono solo alcuni dei nomi forti e più famosi di una rappresentativa ricca di talento e  di comprovata esperienza internazionale ad alto livello. In un girone equilibrato e livellato verso il basso, poi (Slovacchia, Lettonia e Liechetenstein le altre compagini del gruppo), anche una squadra dal palmarès così esiguo ma dal talento tutto da sgrezzare può aspirare al ticket per il viaggio verso il Brasile, terra di sogni ed eldorado pallonaro che solo qualche anno fa avrebbe fatto fare una grassa risata sognante e disillusa ad ogni tifoso ed appassionato bosniaco, dilaniato dalla guerra e dal sogno proibito di una normalità utopica.

Oggi che questo viaggio della felicità è realtà, Sarajevo festeggia. Con la speranza che, attraverso la riscrittura della storia del pallone, anche la Storia con la Esse maiuscola possa iniziare a svoltare verso una coesistenza pacifica in una terra da sempre difficile, ma oggi stanca di rincorrere, come un'inarrivabile chimera, la semplice quotidianità di una vita normale.


sabato 12 ottobre 2013

Danimarca-Italia: il day after

Il day after di Danimarca-Italia ha un sapore particolare, ambiguo, strano. E' un mix tra la dolcezza di una partita riacciuffata nel recupero, l'amarostico di una prestazione non brillantissima e l'infinita goduria nel presentare il conto, nove anni e rotti dopo, ai danesi del biscotto con un altro due a due. Stavolta, però, l'indigestione tocca ai figli della Sirenetta, che con questo risultato dicono presumibilmente addio ad ogni velleità di qualificazione a Brasile 2014.

Tecnicamente, il risultato di Copenaghen vuol dire una cosa sola: l'Italia deve vincere con l'Armenia martedì prossimo per non dipendere dagli altri nella volata verso l'urna di prima fascia del Mondiale venturo. Non ci aspetta un'impresa impossibile, ma sappiamo come, a volte, queste gare col pronostico già scritto possano nascondere insidie. Martedì ci saranno Rossi e, forse, Balotelli, i fattori della coppia d'attacco da sempre nei pensieri di Prandelli. A loro il compito di vincere le resistenze della nazionale caucasica e lanciare gli azzurri verso la qualifica - meritata - di testa di serie.

Tornando alla partita di ieri, si notano più di tutti due particolari: la fragilità difensiva sui cross dal fondo e il carattere combattivo della squadra, oltre il novantesimo e l'undicesimo uomo in campo. Spieghiamo meglio.

Due volte su due, Balzaretti sovrastato. Il che, data la statura non proprio da corazziere del terzino giallorosso, non dovrebbe suscitare grossi allarmi. Il problema è l'avversario, la controparte, quel Bendtner che non segnava su azione da un anno esatto e che popola ancora gli incubi di mercato di tutti i tifosi juventini. L'altezza non fa grande un calciatore, e Bendtner ne è la prova provata: Balzaretti e gli altri prodi della difesa azzurra potevano e dovevano fare di più, soprattutto in vista di un Campionato del Mondo a cui Bendtner presumibilmente sarà assente, ma che ci metterà di fronte ad attaccanti molto più forti del gigante danese coi piedi di marmo.

Il pareggio di Aquilani a una manciata di secondi dal triplice fischio è solo uno dei risvolti del lavoro di Prandelli: il mediano viola è entrato a partita in corso e ha deciso il risultato finale, ma i calciatori che il risultato l'hanno indirizzato, primi tra tutti Osvaldo e Thiago Motta, coautori del primo gol, sono gerarchicamente rincalzi. Nelle preferenze del cittì, sono seconde scelte dietro i Balotelli, i De Rossi, i Pirlo e i Montolivo. Eppure giocano, si dannano l'anima e mettono in pratica il calcio del Commissario Tecnico. Ecco il carattere combattivo di cui sopra: oltre il novantesimo in senso temporale e oltre l'undicesimo uomo in campo per coesione di gioco, di gruppo, di intenti. I viatici migliori per tutte le partite, da quelle semplici (amen) con l'Armenia fino a quelle difficili ma affascinanti che valgono le Coppe del Mondo...

venerdì 11 ottobre 2013

L'Italia in Danimarca: vincere per il ranking, precedenti favorevoli agli azzurri

Con calma, senza ansie e pressioni. A qualificazione ottenuta, la partita degli azzurri in Danimarca è vissuta in un'atmosfera rilassata, tanto che la stampa, pur di vivacizzare un po' la situazione, tenta in tutti i modi di aprire casi-Balotelli a mai finire. Se ne va, non se ne va. Doveva rimanere a casa, fa bene a stare lì dov'è. Una noia mortale, la solita noia mortale.

Eppure, ci sarebbe da parlare intorno ad una sfida affascinante tra due storiche protagoniste del grande calcio europeo. In primis, perchè i danesi del monumento-Olsen sono ancora in piena bagarre per la qualificazione. Si contendono il secondo posto con la Bulgaria, e anche se non hanno più nomi e caratura di qualche anno fa (non vogliamo arrivare ai tempi di Laudrup e del titolo europeo 1992, ma basti pensare ai vari Tomasson, Jorgensen, Sand, Poulsen, Gravesen dei primi anni duemila), restano sempre una squadra ostica da affrontare soprattutto a Copenaghen. I nomi di questa Danimarca sono poco altisonanti (Bendtner e Kjaer come difensore ed attaccante principi dicono tanto, da tenere sott'occhio il talento del Tottenham Erikssen) e la figuraccia con l'Armenia, lo 0-4 patito in casa lo scorso giugno, bruciano ancora. Il buon finale di girone disegnato dai danesi, però, regala ancora speranze di qualificazione. Uno spiraglio da rinfocolare contro gli azzurri dominatori del girone. Non sarà facile, perciò sarà bello.

Poi, perchè al di là del mero pass mondiale già acquisito, agli azzurri occorre ancora una vittoria: c'è da assicurarsi l'ingresso nella prima fascia, quella delle teste di serie del sorteggio per la Coppa del Mondo. Evitarsi la possibilità di incontrare fin da subito la nobiltà del tabellone mondiale vale un ultimo sforzo, anche se per centrare l'obiettivo basterebbe anche battere l'Armenia martedì prossimo al San Paolo di Napoli.

I precedenti sorridono agli azzurri: 8 vittorie in undici incontri, con una sola sconfitta, tra l'altro di buon augurio e auspicio, in terra danese. Era il 1981, e l'Italia di Bearzot provava a qualificarsi ai successivi Mondiali di Spagna. I danesi di Simonsen, storico pallone d'oro 1977, vincono 3-1 e costringono gli azzurri ad un supplemento di sforzo contro Jugoslavia e Grecia. Basterà, per quella volta. E dati i risultati finali, avanzerà anche, con Zoff con la Coppa.

A distanza di un trentennio, situazione non molto dissimile. Se gli azzurri dovessero perdere, nessun supplemento per la qualificazione, già in cascina. Una vittoria con l'Armenia per il ranking, roba non proprio impossibile. Una sconfitta come buon augurio? Scaramanzia, portami via...

giovedì 10 ottobre 2013

Mercato Napoli: non facciamoci abbagliare dalle figurine

Nei giorni silenziosi della pausa-nazionali, ecco rifiorire, come d'incanto, le voci di mercato. La Juventus e i rinnovi di Pogba e Pirlo, le manovre milaniste per rassettare la squadra, l'Inter di Thohir che compra tutto e tutti e la Roma che aggiusta una squadra dopo l'inatteso start-up da vertice.

E infine, il Napoli. Concentriamoci sugli azzurri.

Mille nomi, nonostante l'ottimo inizio di campionato e la Champions bifase, meravigliosa col Dortmund e pessima con l'Arsenal. Proprio da questo ruolino di marcia a doppia faccia, forse, nascono necessità e volontà di potenziare ancora la squadra a disposizione di Benitez in vista della finestra invernale di gennaio. L'analisi è chiara, semplice: il Napoli non ha ancora la profondità necessaria per gestire agevolmente il doppio impegno, dato il noviziato di alcuni interpreti sui grandi palcoscenici Champions (e le otto partite di due anni fa non fanno primavera, restano comunque una manciata di apparizioni e nulla più) e la non eccelsa qualità della panchina. Vedasi lo spaesato Fernandez, l'irriconoscibile Armero, il genrosissimo ma fuori categoria Mesto e gli ancora timidi approcci di Mertens e Zapata. Detto in soldoni, il Napoli pecca di esperienza e personalità in difesa, manca di un esterno basso di ricambio e di una prima punta, se non all'altezza di Higuain (difficile trovarne al mondo), almeno in grado di non far mangiare le mani in caso di forfait del Pipita.

I nomi del calderone mediatico sono variopinti, molteplici: il discepolo di Benitez Skrtel, El Jefe Mascherano, l'ex desiderio del Milan Paulo Henrique Ganso e il giovane Balanta del River Plate, oltre a Bergessio e alla suggestiva ipotesi-Denis come vice Higuaìn.

Tutte ipotesi diverse, particolari e fondamentalmente giuste. Tutte ipotesi che non rispondono, però, ad una strategia coerente o tantomeno comprensibile. Bergessio e Denis sanno di usato sicuro, Balanta profuma lontano un miglio di scommessa, e il prezzo esoso (valutazione di quindici milioni) non aiuta. Ganso necessita di rilancio dopo un periodo di silenzio, Skrtel e Mascherano sono due "semitop-player", titolari in squadroni come Barcellona e Liverpool e soprattutto depositari di un ingaggio stellare.

A questi nomi, dopo l'analisi a freddo, manca quindi il seme progettuale tanto caro al presidente azzurro. Avrebbe senso spendere un paio di milioni per riciclare poi calciatori come Denis o Bergessio in qualche trattativa l'anno prossimo (Calaiò lo scorso gennaio come precedente illustre)? Oppure sarebbe meglio pagare una decina di milioni per un altro giovane alla Balanta senza avere la certezza della resa (Zapata come roba fresca, Datolo o Fernandez o Edu Vargas come esempi d'annata)? O ancora inserire giocatori di valore internazionale come Skrtel o Mascherano pagando cifre esorbitanti per cartellini o ingaggi, col rischio anche di rompere gli equilibri interni?

Queste idee non convincono del tutto. Se il Napoli vuole crescere, ha bisogno di calciatori affidabili, pronti sin dall'arrivo a Castelvolturno. Non di figurine o scommesse. Proviamo a snocciolare qualche nome: un Astori per la difesa, un Nainggolan o un Candreva per il centrocampo, una suggestione-Barrios, ex Pantera paraguaiana del Borussia Dortmund per l'attacco. Merce rara perchè di qualità, costosa ma di sicuro rendimento.

Avrebbe senso spendere almeno una trentina di milioni per un paio di questi nomi per poi rivolgere alla squadra la fiducia più cieca. Forse sì, dato che proprio una fiducia di questo tipo verso la totalità dell'organico è l'ultima cosa che manca al Napoli per spiccare il volo verso la gloria...

martedì 8 ottobre 2013

Lazio e Fiorentina: l'Italia che ride (e spera) in Europa League

A noi italiani l'Europa League è indigesta. Non trionfiamo nella seconda coppa europea dal lontano 1999 (vittoria del Parma di Crespo, Cannavaro, Veron, Thuram, Buffon...), e in quattordici anni abbiamo messo insieme due semifinali in tutto (Parma 2005 e Fiorentina 2007). Sarà stato il minor prestigio del torneo, sarà lo spostamento al giovedì sera con conseguente taglio dei tempi per la preparazione alle gare del week-end di un campionato difficile come il nostro, sarà che era finito il ciclo dopo l'ingordigia tra fine anni ottanta e novanta (1989-1999: undici edizioni, otto vittorie e tre volte un derby italiano in finale). Sarà quel che sarà, ma intanto il quarto posto Champions è finito in Bundesliga, campionato meno articolato ma sicuramente meglio organizzato del nostro.

Eppure, quest'anno, il vento può cambiare. Il tricolore può tornare a svettare sulla seconda competizione europea anche al di là della finale in programma allo Juventus Stadium nel prossimo maggio. Merito delle due compagini in lizza per l'Italia, Lazio e Fiorentina. La terza, l'Udinese, ha già pagato dazio nell'insormontabile (per le zebrette friulane) scoglio dei preliminari, troppe volte poco clementi con Guidolin & co.
Partiamo dai biancocelesti.

L'esultanza di Floccari e compagni dopo la rimonta col Trabzonspor











Dopo l'ottima figura dell'anno scorso (eliminazione ai quarti per sfortuna da infortuni e fattori contingenti, vedasi arbitraggio "casalingo", contro i turchi del Fenerbache), i quattro punti in due partite, conditi da super-rimonta a Trebisonda col Trabzonspor, fanno della squadra di Petkovic una sicura protagonista del torneo. Il girone, dopo il pareggio in Turchia e data la consistenza alla gommapiuma delle concorrenti, pare praticamente archiviato. Il doppio turno con i ciprioti  dell'Apollon Limassol, una formalità sulla carta, certificherà con largo anticipo il passaggio ai sedicesimi dei detentori della Coppa Italia, impegnati poi a prendersi il primo posto nel ritorno all'Olimpico con la squadra turca, all'ultima tappa del girone. L'esperienza maturata lo scorso anno tornerà utilissima per il prosieguo del torneo, anche se l'undici titolare quasi inalterato rispetto alla Lazio 2012/2013 e le difficoltà legate ad infortuni (vedasi i lungodegenti perenni Klose e Radu) potrebbero, come l'anno scorso, costare una flessione nel momento topico della competizione. Se Petkovic riuscirà a dosare bene le forze, e a spremere tutto il succo da due campioncini in erba come Perea e soprattutto Felipe Anderson (abbagliante in Turchia all'esordio da titolare), il doppio impegno campionato-Europa League potrà essere gestito con sagacia, trasformando la Lazio in una vera e propria mina vagante nel tabellone che porta alla finale di Torino del prossimo maggio.

Montella e i suoi.


Il matchwinner di Dnipropetrovsk Ambrosini combatte con due giocatori della formazione ucraina.













La vittoria su un campo ostico come quello di Dnipropetrovsk (chiedere al Napoli di scena l'anno scorso in questi lidi) lancia i gigliati nell'olimpo di questa Europa League. Intanto la Fiorentina è al comando del girone, a punteggio pieno e con cinque punti di vantaggio sulla terza. Poi, per meriti di gioco, impianto di squadra e capacità di combattere, Montella e soci si ritrovano a godere dei favori dei pronostici assoluti dell'intero torneo. La pochezza di Pacos Fereira e Pandurii permetterà difatti ai viola di giocarsi il girone in surplace, per poi presentarsi a febbraio con un plausibile primo posto, un Mario Gomez in più e la possibilità, intanto, di aver potuto recuperare con calma i punti sacrificati in campionato alla ragion di Europa League. A sostegno di queste parole al miele per i ragazzi di Montella, innanzitutto, l'esperienza internazionale dei senatori: Ambrosini, Gonzalo Rodriguez, Borja Valero e proprio Mario Gomez sono dei califfi per l'Europa League. Aggiungiamo la condizione  ancora da massimizzare di Pepito Rossi, il bel gioco tipico della squadra viola e una insospettabile profondità della rosa (pensate al recuperato Vargas, a Joaquin, Vecino, Mati Fernandez, a Commper, Savic e Ilicic), ed ecco servitovi l'identikit di una perfetta candidata al trono dell'Europa League.

Fiducia nelle due italiane, quindi, anche perchè le altre contendenti non sembrano all'altezza delle squadre delle ultime edizioni. Il solo Tottenham è parso di categoria superiore, mentre le spagnole Siviglia e Valencia sono due buone squadre e nulla più. E' vero che abbiamo iniziato a fare i conti senza l'oste (le terze dei gironi di Champions entrano in gara da Febbraio), ma è vero pure che se il buongiorno si vede dal mattino, questa Europa league 2014 può finalmente tornare a sorridere anche ai figli di Dante e Colombo.

E allora cancelliamo la Nazionale!

"Piano-Benitez per i nazionali", "Patto Roma-Prandelli", "Juventus arrabbiata col CT".

Titoli, titoloni e titoletti di giornata. Tristi, molto tristi. A dodici, tredici giorni dalla partita di campionato, Roma-Napoli o Fiorentina-Juventus, ecco già i primi esercizi di alibi da parte delle società e degli allenatori, colpevolmente amplificati dai soliti giornalisti col gusto sadico della polemica.

Come se l'eventuale colpa della sconfitta o della prestazione carente di questo o quel calciatore, da qui a ics giorni, fosse già da recapitare in paccocelere alle Federazioni e ai Ct di tutto il mondo, colpevoli di aver utilizzato i migliori calciatori per qualificarsi alla Coppa del Mondo. Veramente dei monelli, a pensarci. Ok per l'Italia, già qualificata. Ci sta, in fondo, di sperare che le due gare contro Danimarca e Armenia non siano troppo dispendiose dal punto di vista fisico per i convocati, data anche la sostanziale inutilità delle contese.

Il problema è che questi tipi di atteggiamenti, richieste e comportamenti sono una malinconica consuetudine quando si tratta di lasciar spazio alle rappresentative nazionali. Che siano qualificazioni o amichevoli, tutti vedono come un enorme bastone tra le ruote quei novanta o centottanta minuti di calcio in più. A tutti, sembrano essere causa di tutte le sconfitte pre o post pausa per le nazionali. Salvo poi fregiarsi o lamentarsi, in taluni momenti e a seconda dei casi, di avere in squadra un numero di nazionali uguale o diverso dagli altri.

Mai nessuno, però, ha chiesto ai veri protagonisti della vicenda, i calciatori. In pochi, pochissimi, hanno preferito, preferiscono o preferiranno declinare gli inviti a giocare in Nazionale. Sarà patriottismo, sarà protagonismo, sarà voglia di prestigio o soldi. Sarà quel che sarà, ma è. Chi ha preferito farsi da parte oggi invoca la chiamata o viene invocato dalla stampa (Totti docet), e tutti gli altri sono felici di sobbarcarsi chilometri infiniti pur di difendere i colori delle nazioni natie. Un esempio che dovrebbero seguire tutti, presidenti, allenatori e giornalisti, ai quali confermo la provocazione lanciata nel titolo.

Aboliamo le rappresentative, gettiamole nel water e tiriamo lo sciacquone. Pensateci: Campionati e Champions fino a giugno, niente Europei, niente Mondiali, niente qualificazioni o Ct cattivoni che esaltano il prestigio del tuo club e si permettono il lusso di convocare in nazionale un tuo calciatore. Che, tra l'altro, ha tutto il piacere di andarci.

Un'idea provocatoria, ovviamente. Che spavento, però, a pensare per un attimo ai risultati di questo referendum virtuale. Ci scommetterei: qualche sì, qualche malinconico sì, ci sarebbe. E sarebbe davvero un peccato, la morte definitiva di ogni speranza che gira attorno ad un pallone.

Benvenuti

Non mi sono mai piaciute le parole provenienti da altri paesi, quindi ecco perché "Benvenuti" piuttosto che un anglofono (e freddo....) "Welcome".

Tralascio che avevo iniziato questo post proprio con "Welcome", e che poi ho cambiato ricordandomi di essere anticonformista, finto patriottico e portatore quasi convinto del principio di superiorità della lingua italiana.

Parole di Gol è un tentativo. Di parlare di calcio come è sempre piaciuto a me, con l'opinione veicolata alla parola. Con le immagini narrate attraverso le lettere, con l'analisi a freddo, a mente rilassata, senza fare corse sconvolgenti per arrivare prima di tutti e poi scoprire di essere arrivati almeno terzi, diciassettesimi, quarantesimi. Parole di Gol è le dimostrazione che si può fare informazione, si possono fare contenuti senza copiare da nessuno, con la propria testa e con la voglia di rendere partecipi gli altri di ciò che si pensa su un avvenimento tanto opinabile, e perciò bello da seguire, come il calcio.

Una serie di editoriali di opinione su quello che il calcio propone, sui momenti di football che colpiscono la mente e gli occhi di un inguaribile appassionato, che per farsi conoscere ha deciso di utilizzare voi, popolo della rete. Spero possiate ripagare il mio sforzo, seguendomi in grosso numero.

A breve i primi aggiornamenti.

State collegati.

(Ammetto che qui, un anglofono "Stay Tuned!" avrebbe avuto molto più effetto. Ma tant'è, manteniamo fede...)