lunedì 16 dicembre 2013

Napoli-Inter: il day after

Cinque gol al quarantacinquesimo dicono tutto o quasi a chi mastica di calcio. Raccontano di una partita folle, giocata su spartiti assolutamente nuovi per il calcio italiano. Ovvero, difese ballerine e attacchi pirotecnici. Ma quel quasi ha un preciso perchè: si può parlare di terze linee in difficoltà per ambedue le squadre, ma non di prime linee di alto livello in entrambe le compagini. I gol del Napoli nascono dalla bravura dei suoi avanti: quella di Higuain nello sfruttare un'indecisione in disimpegno di Nagatomo, quella eccezionale degli interscambi Mertens-Dzemaili sui due gol del finale di tempo, ed infine quella di Insigne e Callejon a pochi minuti dal novantesimo. I gol dell'Inter, invece, sono veri e propri autogol azzurri, con Guarin fatto passare come un ospite di riguardo sul tappeto rosso e Cambiasso e Nagatomo completamente dimenticati in mezzo all'area.

Errori imperdonabili, di solito, nel nostro campionato. Ma ci ha pensato Mazzarri, con le sue scellerate scelte, a sdoganare la storica severità del nostro campionato verso chi sgarra in difesa. Ovvero, la triste storia vissuta dal Napoli contro Parma e Udinese. Proprio il prode Walter, l'uomo di difesa strenua e contropiede mortifero, che torna a Napoli tra i fischi degli ex sostenitori e si porta a casa un sacco con quattro gol dentro. I motivi di questa debacle? I classici, soliti limiti dell'ex allenatore azzurro: incapacità di variazioni sul modulo e sul modo di giocare, testardaggine a livelli cosmici nel non schierare un secondo attaccante, centrocampo folto ma senza calciatori in grado di sorreggere Cambiasso e la costruzione di gioco. Alias, la stessa cosa.

Il Napoli ha saputo andare a nozze con la pessima partita dei nerazzurri, affondando a folate come la lama nel burro e offrendo la consueta sensazione di imponenza offensiva e impotenza difensiva. Una caratteristica innata alla squadra, correggibile solo con un mercato grandi firme tra mediana e difesa. Dal punto di vista mentale, ottima risposta e continuità di grinta rispetto al capolavoro contro l'Arsenal. niente contraccolpo psicologico e spauracchio-Mazzarri restituito al mittente, con una vittoria che riconsolida il terzo posto e vuole essere ancora un segnale chiaro al campionato, alla piazza e soprattutto al presidente. Questa squadra c'è, e dirà la sua fino a quando i fattori pazzi del calcio non faranno calare la mannaia. E parliamo di infortuni o periodi di calo fisico. Per ovviare a queste eventualità, occorrono uomini al mercato. Uomini in grado di aumentare il tasso tecnico lì dove è più deficitario, ovvero difesa e centrocampo. Fatto questo e fatto bene, Benitez & co. faranno ancora sognare. Garantito.

mercoledì 11 dicembre 2013

Voglio che Il Napoli arrivi al sesto posto in campionato!

Avviso ai naviganti. Se siete scettici su tecnico e squadra azzurri, non proseguite nella lettura. Non vi conviene. Perché già il titolo dice tanto. E aggiungiamo che non è una provocazione, ma una richiesta ponderata alla sorte, una cosa seria, una volontà reale.

Il Napoli è uscito dalla Champions.Cosa dire o fare? Noi proviamo a fare un salto difficile, molto più che lungo o nel vuoto, più che triplo. Saltiamo a piè pari la retorica sul record di punti per una squadra eliminata, le comprensibili sviolinate all'amore già viscerale di Higuain per la sua maglia e la sua gente, i rammarichi per autogol sfortunati o partite affrontate in difetto di idee, ossigeno o interpreti. Saltiamo anche l'esibizione da Oscar con l'Arsenal, la sagacia tattica e tecnica di una squadra in grado di accendere e spegnere partita ed avversari, e che avversari, a proprio piacimento. Saltiamo il presente e parliamo di futuro. Un futuro che vogliamo sia nefasto.

Perché quest'atteggiamento? Per amore e intelligenza. Perché il Napoli deve imparare a fidarsi, a non piegarsi sotto il peso dei risultati o delle voci della strada. Il Napoli deve superare la sua provenienza geografica, quella nazionalità italiana che condanna a vincere e solo a quello. Tutto quello che si può, subito, senza se e senza ma, come se questa eventualità non fosse da conquistare col sudore ma fosse un diritto divino. Nel caso del Napoli, anche un giusto premio alla sofferenza di anni a debita distanza dai lustrini dorati del grande calcio. Il Napoli deve diventare una squadra capace di uscire dal suo piccolo mondo antico di vittima dei padroni. Deve iniziare a sentirsi grande per merito, per imponenza, per grandezza reale.

Per questo deve arrivare sesta in campionato. Per confermare Benitez, per dimostrare di credere in un uomo, nel suo progetto, al di là dei mille episodi che indirizzano una partita, e alla lunga una stagione. Il Napoli deve riuscire ad avere una fiducia più forte delle condizioni a cui questa viene posta, una fede più radicata nelle idee che negli stravolgimenti temporanei che raffazzonano ma non colmano i buchi. Il Napoli deve fare tesoro di questa eccellente prima parte di stagione, per poi buttare tutto all'area, deludere su tutta la linea eppoi dare ad un allenatore che ha le stimmate del vincente la possibilità di riparare ai suoi errori senza l'ansia di un confronto infinito con i numeri. Bisogna sbagliare per correggere e correggersi. Lasciate sbagliare tutti in pace: squadra, allenatore, società. E poi dategli una fiducia reale. Hanno dimostrato che se la meritano, e scommettiamo faranno il possibile per meritarsela. Sul campo, dalla panchina, al mercato.

Date a Benitez una squadra da far rendere e lui la farà rendere. Con idee di campo e non di nervi. Con la testa e il cuore, non solo con quest'ultimo. Col mister spagnolo si stravolgono metodi di gioco e di approccio al pallone, si metabolizza in parte una internazionalizzazione che necessita solo dei campioni veri per essere reale e fare paura a tutti. Con gli Armero, i Britos, i Maggio e gli Dzemaili si fanno dodici (!) punti in Champions e si sta a meno otto dalla Juventus dominante e dominatrice. Scommettiamo che con calciatori più degni di questo titolo questi ottimi risultati diventerebbero eccellenti? Fidatevi di Rafa, fidatevi del Napoli. Siamo certi: non ve ne pentirete.

sabato 7 dicembre 2013

Sorteggi Mondiali: il day after

Il giorno dopo i pensieri sono più puliti, lucidi, non schiavi dell'arrabbiatura o dell'entusiasmo del primo momento. Il giorno dopo i sorteggi Mondiali tutto è deciso ma tutto è anche chiaro e limpido. Eppure, qualcosa continua a non essere chiaro.

Il gruppo degli azzurri - Sarà difficile, per l'Italia. Come se non fosse bastata la stravagante e nuovissima qualifica di squadra non testa di serie, gli azzurri vengono travolti dalla sfiga cosmica e finiscono nell'urna mista. Una manna e una condanna: una manna perché si evitano le teste di serie europee e ci si accoppia con l'Uruguay, una condanna perché ci si affianca necessariamente ad una nazionale della stessa confederazione. La sorte porta in dote la non simpaticissima Inghilterra di Hodgson, squadra sempre temibile ma allergica ai grandi appuntamenti internazionali. L'ultima squadra è la Costarica, sicuramente la più debole del raggruppamento, ma non una squadra materasso in senso stretto, con la sua terza qualificazione mondiale nelle ultime quattro edizioni.

Il bilancio è negativo. Poteva andare anche un po' peggio, ma poteva sicuramente andare meglio. L'Uruguay non è al livello delle grandi potenze mondiali, ma di certo vanta calciatori di livello ed esperienza internazionale in sovrannumero rispetto ad altre teste di serie, vedasi Svizzera e Colombia. L'Inghilterra ha preso il posto di un'eventuale Bosnia, Croazia o Grecia. Passi per il Costarica, ma la sfortuna aveva già colpito Prandelli e soci. Ed inoltre, l'urna era quella che, al massimo, poteva prevedere gli USA come avversari più ostici.

Sarà vera sfortuna? Pensiamo ai corsi e ricorsi storici. l'Italia zoppica nei gruppi facili, si esalta nelle grandi sfide. La nostra avventura iridata racconta di tonfi tremendi in partite abbordabili e di grandi imprese nei momenti dal pronostico avverso. I due ultimi Mondiali, il trionfo del 2006 partendo da un gruppo complicato e la delusione sudafricana in un girone ridicolo, sono solo la conferma più vicina nel tempo ad una teoria delle forze opposte che da sempre fa capo alla nostra nazionale.

Gli altri raggruppamenti - Il sorteggio più strampalato della storia partorisce un Mondiale a metà: subito le grandi sfide che dovrebbero caratterizzare la competizione, ma anche gruppi materasso che in altri momenti storici avrebbero fatto ridere i polli. Il Brasile padrone di casa può ritenersi soddisfatto: ha evitato le europee pericolose pescando la Croazia, ma le squadre "intermedie" sono le ostiche Messico e Camerun, il meglio delle altre due urne. Il problema sorge dopo, con l'incrocio con il gruppo simbolo dell'ingiustizia del Mondiale 2014: nel gruppo B, infatti, si sfideranno le finaliste di Sudafrica 2010. Spagna e Olanda subito contro, con il Cile di Vidal e l'Australia come vittime sacrificali designate. Sorge il sorriso se si pensa al gruppo C, dove si sfideranno nientepocodimenoche le fortissime Colombia, Grecia, Costa d'Avorio e Giappone. Un sospiro di sollievo per Zaccheroni e i suoi samurai, una sconfitta per il calcio. Oltre che per l''Italia, gruppo tosto per la Germania, con Portogallo, Ghana e USA. Buna sorte per l'Argentina, che affronterà Iran, Bosnia e Nigeria. Sorridono, infine, Francia e Belgio: i primi, da non testa di serie, giocheranno contro Svizzera, Ecuador e Honduras. I secondi si giocheranno gli ottavi contro la Russia, l'Algeria e la Sud Korea.

Alzato il sipario, a voi la Coppa del Mondo più bella di sempre. Come già detto e raccontato in queste pagine, il Mondiale brasiliano rappresenta il meglio in chiave scenografica e tecnica. Appuntamento a giugno per sapere se avremo avuto ragione o meno...

Post Scriptum - Abbiamo evitato il tono polemico che ha caratterizzato gli altri, privilegiando un'analisi tecnica del risultato delle urne. Eppure, storciamo il naso. Non tanto per l'Italia, come detto: per la nostra Nazionale, come da ricorsi storici, meglio incrociare le armi con i forti che con i deboli. Siamo perplessi in senso generale, per un regolamento non solo ambiguo e difficilmente condivisibile, ma addirittura cambiato in corsa ad arte. La Francia ha faticato da matti a qualificarsi per aver beccato la Spagna nelle qualificazioni, ma è stata lautamente ricompensata. Dalla sorte? Chissà. Certo, l'idea del sorteggio "tecnico" della nona europea è una furbata regolamentare che sa tanto di aiutino premeditato. Aggiungiamo la "casualità" dei gruppi morbidi per Svizzera (patria del presidente Blatter) e Russia (squadra che più di tutte aveva protestato per i parametri di scelta per le teste di serie, oltreché nazione di fortissime pressioni sul calcio internazionale e prossimo paese ospitante della Coppa), ed ecco aleggiare lo spettro dell'ingiustizia. Ma non è tutto: il meccanismo delle teste di serie ha finito, volente o nolente, per disegnare una griglia di partenza sbilanciata tutta dalla parte di alcuni raggruppamenti. Passi per noi, ripetiamo, pur dall'alto di un secondo posto agli europei vecchio solo di due anni. Ma pensiamo all'Olanda, qualificatasi in carrozza e medaglia d'argento in carica. Affronterà la Spagna Campione nella primissima partita. Abbiamo detto tutto.

martedì 3 dicembre 2013

Napoli-Lazio: il day after

Probabilmente, il Napoli non vincerà lo scudetto. Eppure, al fischio finale di Lazio-Napoli, nell'aria si sentiva un vento diverso, cambiato, svoltato.

Chiariamo: il Napoli di ieri sera è una squadra mediocre, in grado di vincere contro la Lazio e pochi altri. Partita di pessimo livello, zeppa di errori e imprecisioni tecniche. Partita tra due squadre in difficoltà, vicinissime al baratro della stagione già fallimentare e al di sotto dei propri standard, fisici e di gioco. Le nefandezze difensive sono state all'ordine del minuto, e la causa non è tanto da ricercare nel lavoro dei due allenatori, quanto nella bassa qualità (eufemismo) degli interpreti difensivo. Vedasi un Armero perennemente in difficoltà, un Britos fuori fase e gli inguardabili Cana e Ciani.

Nel solco di questa mediocrità, esce vincitore il Napoli. O meglio, escono vincitori i campioni del Napoli. La differenza tra le due squadre è stata nella partita da fuoriclasse di Higuain, nella rinnovata verve di Callejon, nel "meno peggio del solito" di Pandev e nell'impegno a tutto campo di Insigne. Insomma, in quello che ha fatto grandi gli azzurri di inizio stagione e poi è venuto a mancare nelle ultime esibizioni. In quello che è mancato alla Lazio, aggrappata al solo Candreva, abbandonata da Hernanes e troppo spuntata nell'opporre il solo Perea alla rivedibile difesa partenopea.

Il Napoli non ha ancora ripreso a correre: il gioco è ancora mezzo latitante, e c'è da scommetterci che una difesa meno improvvisata di quella laziale avrebbe sicuramente subìto meno delle quattro reti incassate ieri da Marchetti. Eppure, il vento pare cambiato, come dicevamo: perché stanno tornando corsa e dinamismo, perché i palloni lanciati verso Higuain e spizzicati dal Pipita non finiscono nel cestino del campo vuoto, perché c'è un buon appoggio sugli esterni e perché Hamsik prima o poi rientrerà. E si sa che quando lo slovacco gira, si sente una musica molto più melodiosa dei suoni sordi dei giorni senza Marek.

Le sensazioni del day after sono contrastanti. C'è ancora molto da lavorare, c'è ancora parecchia fiducia da riporre nel difficile lavoro di Benitez. Non sarà tutto rose e fiori come ad inizio anno, e le difficoltà aumenteranno sempre più, di pari passo con fatica e adattamento e conoscenze altrui. Eppure, il Napoli ha dimostrato che c'è. E molto probabilmente ci sarà, fino alla fine. Al netto delle fisiologiche giornate storte, al netto di prestazioni al di sotto delle effettive potenzialità, di un'idea di gioco che a volte va a quel paese ma che non smette mai di essere cercata, perseguita, sperimentata.

I grandi progetti richiedono costanza e applicazione per essere realizzati. A volte, fidarsi è bene anche a dispetto del non fidarsi è meglio. A Napoli farebbero bene a pensare che questa volta sia proprio una di quelle buone per smentire i proverbi.

domenica 1 dicembre 2013

La differenza di chiamarsi Juventus

A Natale si è tutti più buoni. E anche se siamo appena al primo dicembre, ecco che l'atmosfera natalizia si impadronisce del campionato di calcio, con tutte le grandi meno una a elargire regali e punti a destra e a manca. Meno una, si diceva. Quella cannibale, quella senza ritegno, cuore, quella che vince con le unghie e con i denti. La Juventus.

Lo si era detto, lo si diceva, si sta verificando. Per un po' c'è stata la Roma a distrarci, ma alla fine non c'è stato verso di cambiare le cose. Questa Juventus, per il nostro calcio, è troppo. Troppo forte, troppo organizzata, troppo affamata, troppo pronta. Troppo italiana. Pregio e limite dei bianconeri, che passano il turno in Champions faticando a bestia e poi centrano il miglior inizio stagione dell'era Conte. Pareggiano con Copenaghen e Galatasaray e poi si ritrovano a più tre sulla Roma e a più nove sul Napoli.Una disfonia di potenza ancora forte, ma che sottende ad un dominio sul calcio nostrano che pare, ad oggi, impossibile da scalzare.

Prendiamo la giornata di campionato ancora in essere: l'Inter si fa recuperare dalla Sampdoria, la Roma prende un punticino solo negli ultimi minuti nella trasferta a Bergamo. La Juventus vince al novantunesimo contro la migliore Udinese della stagione. Soffrendo, tirando per i capelli la partita, e alla fine avendo ragione.

Sta qui la differenza, in una potenza emotiva e di carattere troppo distante dalla titubanze della concorrenza. Merito della fortuna, diranno gufi e maligni. Indubbiamente, aggiungiamo noi neutrali. Che però togliamo il grasso dal prosciutto del tifo e sottolineamo come la fortuna la ottiene chi va a cercarsela, chi cerca di meritarsela. La Juventus è progredita proprio lì dove era necessario progredire, nella qualità e nella prolificità degli uomini offensivi. Le danze stagionali del gol le ha aperte Tevez, poi è toccato a Llorente prendersi il centro dellla scena, in un duetto di gol che fa sentire lontanissimi gli echi della volubilità di Vucinic, degli sfarfallii di Giovinco, delle pur positive esibizioni di Quagliarella. Aggiungiamo a questo enorme dettaglio la crescita esponenziale del mostro Pogba, i recuperi degli infortunati di inizio stagione e la sagacia di un mago della panchina come Conte. Ecco un cocktail perfetto, dalla gradazione troppo alta per una Serie A non in grado di assorbire tanta forza d'urto. E che rimane giustamente indietro.


mercoledì 27 novembre 2013

In difesa di Benitez


Il calcio, soprattutto quello italiano, soffre di una brutta malattia. Lo svilimento dell'idea. E' un morbo difficilissimo da debellare, duro, arcigno, impenetrabile anche a seguito di anni e anni di rigida applicazione mentale, sociale, psicologica.

L'ultimo focolare della patologia è scoppiato a Napoli. Della serie: Benitez non può allenare in Italia, il suo gioco è inconsistente, Higuain è un pacco, Callejon e Albiol sono due morti che camminano, e così via. Una serie infinita di congetture totalmente opposte a quelle che, solo un mese fa, viaggiavano nelle voci di Napoli e dintorni. Certo, gli ultimi risultati sono deludenti. E si sa che chi non vince, nel calcio come nella vita, fa fatica ad avere ragione.

Eppure, bisognerebbe andare oltre. Oltre già nell'analisi degli stessi risultati, da considerare nella loro qualità di numeri totali: sorprendenti, eccezionali, statisticamente i migliori del Napoli di tutti i tempi. Ancora adesso, nonostante il periodaccio in corso. Il miglior inizio di sempre in campionato, una Champions con più punti di Mazzarri due anni fa dopo cinque partite (nove oggi, otto due anni or sono), tanto per gradire. Eppure, c'è chi storce il naso, parlando di risultati deludenti. Se adduce alle ultime partite, figuriamoci. Ha ragione. Ma è vero pure che il Napoli paga solo ora l'inizio a mille, con un calo fisico e tecnico fisiologico, forse inatteso per gravità ma sicuramente preventivabile. Soprattutto in una squadra fondamentalmente nuova, ancora tutta da sgrezzare.

Da qui, la totale inutilità, ottusità e incompetenza delle e nelle critiche a Benitez.Critiche figlie d'amore per la squadra, certo, ma che non rendono giustizia ad un tecnico che ha probabilmente il solo difetto di voler predicare in estetica dove prima si predicava, peraltro efficacemente, in lingue più d'efficacia e di veemenza. Il fioretto al posto della sciabola, una vecchia parabola ancora indigesta al pubblico di Napoli. Un pubblico che rumoreggia per la scarsa qualità del gioco, per la pochezza difensiva, per una esistente e preoccupante involuzione offensiva della squadra.

Visioni soggettive, punti di vista che però sono acuite dalla malattia di cui sopra. Al diavolo ogni cosa, nel nome dei risultati. Del tutto e subito. Cambiamo tutto, finanche il tecnico perchè da un po' a questa parte non si vince. Questa l'idea del popolo azzurro, speranzoso di sorridere per grandi gioie calcistiche. Idea d'amore, ma idea sbagliata. Perchè Benitez ha avviato un lavoro, a Napoli, che sarebbe delittuoso interrompere di botto. Un lavoro di metamorfosi in senso ampio, che vuole avvicinare la squadra, e attraverso di essa il club, alle grandi d'Europa. Con un gioco internazionale ed internazionalizzato, nuovo per questi lidi. Attraverso un modo di scendere in campo che passa necessariamente dalla forza degli interpreti, dalla loro classe, dalla loro forma.

Il Napoli di oggi, quello che oggi arranca, che si è un attimo seduto dopo un inizio sfolgorante, paga non tanto un allenatore sbagliato, ma un lavoro di conversione non ancora digerito e forse non totalmente digeribile da parte dell'organico. Non per cattiva volontà, ma per inadeguatezza tecnica. Pensiamoci: il Napoli che vinceva aveva in campo il miglior Hamsik, un ottimo Higuain, uno splendente Callejon, più Mertens, Zuniga, Behrami, Inler e Reina. Il grigio Napoli di oggi paga il calo dei suoi fuoriclasse, i loro acciacchi e soprattutto l'inadeguatezza di coloro che sono stati chiamati ai galloni di titolari per sopperire alle assenze altrui. Avvaloriamo questa tesi? Nel naufragio generale di Dortmund, i peggiori sono stati gli impresentabili Armero e Pandev, vice-Hamsik e vice-Zuniga della rosa azzurra. Se a questo aggiungiamo lune traverse di Higuain e disattenzioni difensive inevitabili per chi, come il Napoli, è in piena fase di reload totale del modo di giocare e manca di una difesa di riconosciuto valore internazionale, la somma porta a spiegare il momento di difficoltà azzurro.

Colpe di Benitez? Poche. Al massimo si può ascrivere al tecnico castigliano un'eccessiva fedeltà ad un modulo non sostenibile da questi interpreti. Ma non per questo tutto è stato ed è sbagliato, ed i numeri sono lì a dimostrarlo. Se poi siete malati anche voi di svilimento dell'idea, allora lapidate finchè siete in tempo. La fiducia non fa parte del corredo genetico di questa malattia, non è colpa vostra. Noi che non abbiamo ancora contratto il vibrione, difendiamo questa rarissima merce.

Non vogliamo sia a tempo indeterminato. Impossibile, oltreché miope. Ma che almeno sia temporizzata su tempi non malati, e perciò non istantanei e istantaneamente disfattisti. Chiediamo tanto? Al nostro protetto/difeso Benitez, ai suoi risultati e al suo calcio l'ardua, unica, incontrovertibile sentenza.

martedì 26 novembre 2013

Viva l'Italia

La Roma ha pareggiato col Cagliari, ieri sera. Zero a zero, terzo pareggio consecutivo e vetta abbandonata dopo due mesi e rotti di dominio incontrastato.

Che cosa strana, che anomalia. Che cosa bella, aggiungiamo noi.

Pensiamoci: in quale altro campionato europeo, la squadra che ha vinto le prime dieci partite consecutive potrebbe inciampare in tre segni ics consecutivi? E soprattutto, quale top club europeo potrebbe ritrovarsi con due punti in più al termine del doppio turno casalingo contro Sassuolo e Cagliari?

Esatto, la risposta è "Nessuna". Proprio ieri Bruno Longhi, su Sportmediaset (un clic qui per chi volesse curiosare), ha esaltato il livellamento, l'equilibrio e la difficoltà del nostro campionato, sottolineando anche come solo in Italia le grandi squadre debbano far fronte alle tossine della Serie A nei lori impegni  europei. Non è raro, infatti, vedere un club italico zoppicare contro squadre non trascendentali, e l'esempio della Juventus cannibale in Italia e bestiolina in Europa contro i vari Copenaghen, Galatasaray e Nordjsaelland è probabilmente il più esplicativo. Tacciamo poi, per pudore, i pessimi risultati delle nostre in Europa League, competizione che ci vede assenti in finale dal 1999 e in semifinale dal lontano 2008.

I commenti di tifosi ed addetti ai lavori a questa tesi sono variegati, orientati in mille modi. Il livellamento è verso il basso, il nostro campionato è il più tattico o difensivo, la Serie A è più povera, si gioca male e le grandi squadre soffrono per questo.

Eppure, confrontiamo i risultati dell'ultimo week-end: in Italia la vittoria "normale" di una Juve tornata grande in quel di Livorno, un umanissimo zero a due. Poi, il mezzo passo falso della Roma e l'inopinata sconfitta interna del Napoli col Parma. Il pareggio del Milan col Genoa e dell'Inter al Bologna sono il corollario, le non eccezioni che confermano le regole.

Fuori Italia, invece, robe così: Man City-Tottenham 6-0, West Ham-Chelsea 0-3, Atletico Madrid-Getafe 7-0, Almeria-Real Madrid 0-5, Barcellona-Granada 4-0, Reims-PSG 0-3. La dittatura dei Top Club, con relativo azzeramento di avversari impossibilitati a replicare.

Il nostro livello pallonaio sarà anche in picchiata, le nostre squadre giocheranno anche male e faranno figure barbine in Europa. Ma se l'eventuale contrappasso del cambiamento dovesse essere un campionato con questi crismi, con questi risultati e queste infinite distanze tra prime e ultime, non siamo sicuri di volerci auspicare un cambiamento. Mettersi al sabato e alla domenica davanti alla televisione a guardare le partite senza sapere come va a finire, per noi, vale ancora di più. Anche perché poi, anche se con un po' di stanchezza in più e qualche possibilità di vincere in meno, anche di mercoledì ce la giochiamo. Se voi preferite i film col finale, già raccontato, liberissimi. Almeno noi, col pallone, ci divertiamo tutti e per tutte le partite.

Viva l'Italia, diceva De Gregori. Viva l'Italia del calcio, aggiungiamo noi. Alla faccia del disfattismo.

domenica 24 novembre 2013

Napoli-Parma: il commento

L'Italia, alias né Spagna e né Inghilterra. In una accezione geografico-calcistica, ecco le difficoltà del Napoli visto ieri sera contro il Parma. Il peggior Napoli della stagione contro un Parma organizzatissimo in difesa e pronto a ripartire, come nella miglior tradizione italiana.

Il sorprendente risultato finale è meritato, giustissimo: Donadoni ha dato scacco matto a Benitez lasciando sguarnito il centro dell'attacco, togliendo punti di riferimento offensivi e confidando nella capacità di Cassano di portarsi via almeno due uomini. Lo spazio lasciato agli inserimenti dei vari Sansone, Biabiany e Parolo ha fatto in modo, sin dai primissimi minuti, che ad ogni ripartenza parmense il Napoli desse l'impressione di essere pronto a capitolare. Dall'altra parte del campo, invece, sensazioni antitetiche, diametralmente opposte. Gli azzurri facevano una fatica infernale già solo a superare il centrocampo di Donadoni, figurarsi la difesa. Doppia mandata nella serratura difensiva, velocità e corsa le armi nelle controffensive orchestrate dal piede educato di Cassano. In due frasi semplici, la disfatta azzurra.

La prima sconfitta allarmante della gestione Benitez sottolinea il limite principale del tecnico spagnolo. Non tanto l'integralismo sul modulo, quanto la necessità che questo sistema di gioco poggi su una condizione fisica e mentale perfetta dei giocatori migliori. Pensiamoci: il Napoli ha vinto nove partite di campionato, soffrendo raramente e trovando quasi sempre la via della rete. Nelle prime giornate Hamsik, poi Higuain e Callejon a sfondare le difese con giocate di alta classe. E se questi tre, come ieri sera, non rendono al massimo? Se incappano in una serata storta, un po' per demeriti propri, un po' fisiologicamente e un po' per la perfetta organizzazione degli avversari? Luce spenta, sconfitta ineluttabile. Ecco il grande problema del Napoli, il problema di Benitez nell'approcciarsi al calcio italiano. I guai cominciano quando i grandi calciatori, per un motivo o per un altro, non riescono a spaccare la partita. Otto uomini dietro la linea della palla sono un must per il calcio italiano, e divengono insuperabili se i calciatori più forti non riescono ad esprimersi al massimo delle loro possibilità.

E qui torniamo all'inizio del pezzo: l'Italia non è la Spagna, non è l'Inghilterra. E' un paese calcisticamente infame, dove non ti viene perdonato niente e dove anche i più piccoli, Sassuolo docet, possono ingarbugliarti i pensieri e il modo di giocare. Difendersi a spada tratta non è disonorevole a queste latitudini, e se i fuoriclasse latitano e il tuo gioco sottende solo alle loro lune, tutto il gaudio fa presto a trasformarsi in lacrime. Benitez se ne era già accorto con l'Inter tre anni fa. Caro Don Rafè, fai in modo di non dovertene accorgere ancora...

mercoledì 20 novembre 2013

Il Mondiale più bello di sempre

Sarà che gli dei del calcio sono sensibili ai paesaggi da copertina, alla sabbia bianca di Copacabana, alle forme delle donne do Brasil. Oppure, molto più semplicemente, hanno voluto rendere giustizia alla patria del calcio più bello del mondo, alla casa del futbol bailado, ai ritmi cadenzati del ballo pallonaro più bello dell'universo. Fatto sta che tra pochi mesi assisteremo al Mondiale più bello di sempre, alla Coppa del Mondo più difficile, indecifrabile e perciò attesa di tutti i tempi.

I motivi che fanno pensare ad una grande kermesse sono da rintracciare, in primis, nella rosa delle partecipanti. Molti operatori del settore hanno sempre criticato l'ingordigia tipica blatteriana, causa dell'ingrandimento sproporzionato del Mondiale fino a trentadue squadre. Eppure, oggi, proprio questa disponibilità di posti ha dato la possibilità a tutte le più grandi squadre del pianeta di presentarsi ai nastri di partenza della Coppa. Pensiamoci: tutte le nazionali campioni del mondo (Uruguay, Italia, Germania, il Brasile padrone di casa, l'Inghilterra, l'Argentina, la Francia e la Spagna) e gli eterni secondi olandesi. Ovvero, il meglio del meglio per tradizioni e blasone. In più, tutte le migliori rappresentative emergenti: la fortissima Colombia, il Belgio dei giovani fenomeni, la Russia di Capello, il Portogallo di Cristiano Ronaldo e il Cile di Vidal. La creme del pallone al gran completo, già di per sé bastante a disegnare un Mondiale da sogno. Eppure, non è ancora tutto. Mai come quest'anno, infatti, la qualità media delle squadre qualificate è così elevata, equilibrata, livellata verso l'alto: basti pensare all'unica nazionale esordiente, la Bosnia, ovvero un concentrato di talento e gioventù tutto da sgrezzare nel catino bollente degli stadi brasiliani.

Il resto è tutt'altro che ornamento: le africane rappresentano il meglio del continente nero (il Camerun di Eto'O, la Costa d'Avorio di Drogba e il Ghana di Muntari e Boateng oltre a Nigeria e Algeria), il Giappone di Zaccheroni e l'Australia guidano la pattuglia asiatica, mentre il Messico e i progrediti USA rappresentano il nord delle Americhe. Un parterre ricco di stelle di prima grandezza, con un solo assente illustre (Zlatan Ibrahimovic, buttato fuori agli spareggi dal mostruoso Cristiano Ronaldo) tra i calciatori e zero defezioni tra le grandi rappresentative, per un Mondiale grandi firme e veramente capace di portare tutto il meglio dell'intero planisfero calcistico.

Il sorteggio è fissato per il prossimo sei dicembre. Lo scellerato regolamento delle teste di serie, con Colombia, Belgio e addirittura Svizzera in prima fascia, potrebbe subito disegnare gironi di ferro con due grandi squadre contro. Un peccato veniale che mai come in questo caso rende però giustizia ad una competitività finalmente all'altezza del titolo messo in palio, quel titolo Mondiale che mai come stavolta designerà davvero i Campioni del Mondo. Perchè quello brasiliano si appresta ad essere il Mondiale più bello di sempre.  

giovedì 14 novembre 2013

Serie A: il pagellino della sosta

La sosta novembrina del campionato è il momento migliore per il primo mini-bilancio della stagione calcistica: il meglio ed il peggio della nostra Serie A in una vera e propria pagella scolastica. Squadra per squadra, voti e brevi giudizi alla prima parte di stagione delle grandi della Serie A.

In ordine di classifica.

Roma: Voto 9

Garcia rulez. Una squadra praticamente rinata dalle sue ceneri, grazie al lavoro lineare, serio e non esasperante del tecnico francese. L'incredibile serie iniziale è stata sporcata dai due fisiologici pareggi con Toro e Sassuolo, e il distacco è minimo solo per gli altrettanto grandi inizi di Juventus e Napoli. Gioco classico ma redditizio, grande rendimento per Totti, Gervinho, Pjanic e l'intera difesa. Borriello e  De Rossi le riscoperte ad altissimo livello, un peccato gli infortuni che hanno un po' azzoppato le ultime versioni del finto tridente in attacco. Sicuramente lotterà fino alla fine per le primissime posizioni.

Juventus: Voto 8

Nonostante il solo punto di ritardo, voto non scintillante per Conte e soci, soprattutto a causa del rendimento non eccelso offerto in Champions. Certo, le possibilità di passare il turno sono alte, ma negli occhi restano le difficoltà avute con Copenaghen e Galatasaray. Il doppio confronto col Real Madrid ha ridato vitalità e mordente ad una squadra apparsa talvolta priva della consueta ferocia agonistica. La fastosa vittoria col Napoli segna il definitivo ritorno ad una normalità che può solo impaurire gli altri rivali in chiave scudetto. Tra i giocatori, bene Tevez e Llorente, quest'ultimo attardato da un inserimento non semplice. Altalenante Buffon, benissimo Pogba, clamoroso assente ingiustificato il quasi dimenticato Marchisio.

Napoli: Voto 8

L'approccio nei big match come unica, pesante nota negativa. Zero gol fatti contro Roma, Arsenal e Juventus rappresentano il vero limite di una squadra che pare soffrire troppo gli impegni di rilievo. La causa va ricercata, forse, nell'inesperienza di alcune pedine chiave (vedasi Hamsik, Callejon, Insigne) in occasioni di prestigio da vivere come protagonisti e in un livello qualitativo dell'organico ancora troppo sbilanciato in avanti, con una difesa ancora non alla pari della batteria offensiva. Per il resto, inizio roseo: il modulo e la mentalità internazionale di Benitez leniscono la ferita-Cavani, il gioco ha nuovi sbocchi e attecchisce anche ad un campionato duro come la nostra Serie A. Il terzo posto a quattro punti dalla vetta è un buon viatico per una stagione da protagonisti, a patto che la squadra venga rinforzata in Gennaio. Senza nuovi arrivi, destino da comprimari, seppur di alto livello. Tra i calciatori, bene Higuain nonostante gli acciacchi e strepitoso inserimento di Mertens.

Inter: Voto 7.5

Mazzarri superstar nella Milano nerazzurra. L'ex tecnico azzurro riesce a cavare ragni dai buchi nonostante l'instabile atmosfera di sconquasso societario del club meneghino, restituendo al popolo interista un minimo di credibilità tecnica e di ambizioni. La ricetta? Un'identità di gioco precisa, lineare, coerente. Alla base il recupero mentale, poi fisico di una squadra allo sbando. Poi, il classico impianto a tre difensori fissi, un must per il tecnico livornese. I risultati sono tipici e tipicamente buoni, seppur con qualche intoppo di troppo contro squadre non eccelse (vedasi le gare di Bergamo, nella Torino granata e lo stesso due a zero casalingo, opaco anzichè no, contro il Livorno). Classifica giusta, squadra in crescita e destinata ad un futuro sicuramente indonesiano, si spera non scriteriato in società come da qualche anno a questa parte. Tra i calciatori, un plauso al solito Palacio, al redivivo Ricky Alvarez, agli scoppiettanti Nagatomo e Campagnaro. Il recupero di Jonathan, poi, è un capolavoro di ingegneria calcistica. Ma la vera star è lui, il tecnico antipatico che non sbaglia un colpo. Con questa Inter, francamente, non si poteva fare di più.

Fiorentina: Voto 7.5

Probabilmente, il miglior calcio dell'intera Serie A. Non che sia necessariamente un pregio, però. I viola giocano sempre bene a pallone, e a volte sacrificano il risultato in nome di un'estetica che non sempre asseconda la voglia dei tre punti. Vedasi le rimonte interne subite con Parma, Cagliari e (quasi) Sampdoria.  Il percorso di crescita dei viola con Montella in panchina però continua inarrestabile, e passa saggiamente da un'Europa League affrontata con sagacia e voglia di far bene, e che già sa di sedicesimi. Necessario attardarsi un po' in campionato, specie se poi il tuo crack del mercato estivo, Gomez, si rompe dopo pochi minuti di gioco. La classifica non piange, specie dopo il buon filotto messo a segno a seguito dell'incredibile vittoria sulla Juventus, per la felicità dell'ottimo Montella e della società. In campo, straripante ritorno di Pepito Rossi, eccellente avvio di Cuadrado e solito grande contributo di Borja Valero e Rodriguez. Un po' in ombra Aquilani, mentre la scommessa Neto vive ogni gara sul filo dell'intermittenza, a metà tra una grande parata e una papera sempre in agguato.

Lazio: Voto 5.5

Il caso della panchina laziale è stato tale, forse, più sui giornali che nella realtà. Certo, Petkovic non vive nella bambagia come lo scorso anno, ma la situazione non è irreparabile e le colpe non sono proprio tutte sue. Analizziamo: squadra praticamente immutata, con acquisti estivi al momento illustri sconosciuti. Biglia è stato zero, Novaretti è massimo un rincalzo, Anderson è bravo ma ancora acerbo. Il resto è la Lazio di sempre, con un anno in più sulle spalle di Klose, un'altra stagione fuori dal grande giro per un irriconoscibile Hernanes e i soliti noti tra difesa e centrocampo. Lo straripante Candreva, da solo, non può bastare, e la classifica ne risente. Certo, restano una Europa League con qualificazione quasi certa e ancora tante partite da giocare, ma è netto il sentore di una stagione di regressione per una squadra non rinforzata adeguatamente e quindi non più in grado di competere per le prime posizioni.

Milan: voto 4

Ben vi sta, direbbero le nonne antipatiche. Se la gestione vive praticamente di espedienti, senza programmazioni serie e coerenti, i risultati non possono essere altro che questi. L'ultimo calciomercato rossonero? Matri, Kakà, Saponara, Poli, Birsa, Silvestre. Un solo difensore, e che difensore, per una squadra costretta a schierare dietro, con sette Coppecampioni in bacheca, gente come il pur generosissimo Zapata, Mexes, Constant, Zaccardo o Bonera. Quattro giocatori offensivi quando in organico puoi contare su Balotelli, Robinho, El Sharaawy, il pur lungodegente Pazzini, Niang. Una campagna acquisti fatta con i piedi, con un tecnico non più gradito dalla società e incapace di bloccare l'ormai consueta emorragia di infortuni. In più, le beghe societarie tra l'arroganza della Berlusconi family e un Galliani che non può difendersi con risultati che non ci sono. Intanto, è malinconicamente decimo posto rossonero. Così, giusto per ricordarlo.



domenica 10 novembre 2013

Del Piero, Zanetti, Lippi: eccellenze al di là delle bandiere

Alessandro, Javier, Marcello. Per chi come me ha avuto la fortuna e la volontà di crescere a pane e calcio, e ha avuto il piacere temporale di godersi gli ultimi anni novanta e i primi duemila di racconti pallonari, questi tre nomi propri avranno tre cognomi fissi di destinazione.

Il caso ha voluto che il nove novembre del 2013 sia stato il giorno della celebrazione per tutti e tre questi mostri sacri del pallone italiano, tra ricordi malinconici a ciò che è stato e addirittura sguardi ad un futuro prossimo che ancora avrà i tratti inconfondibili delle loro facce. Del Piero, Zanetti, Lippi: la grande Serie A dell'ultimo decennio tutti liofilizzati in una giornata speciale, che ha consacrato, o meglio consacrato nuovamente, ancora, per l'ennesima volta, i loro nomi all'immortalità calcistica.

Da Sidney con furore. Il numero dieci bianconero (lo è ancora, con buona pace di un campione come Tevez) festeggia in campo i suoi trentanove anni. Con la salute, la forza e la voglia di giocare di un ragazzino alle prime armi, che si getta con entusiasmo nella prima grande avventura della carriera. Del resto, la forza di Del Piero è sempre stata quella di anteporre il piacere del gioco a quello delle parole, la gioia del gol a quello di un'intervista, di un tweet o di una ospitata in una trasmissione. Del Piero ha avuto mille vite, come calciatore: quasi tutte nella Juventus, non tutte bellissime, ma nessuna insignificante o dimenticabile. Ma soprattutto, nessuna per cui qualcuno abbia potuto criticare l'uomo oltreché il calciatore. Del Piero ha diviso come puro rendimento calcistico, ma ha sempre unito come talento, come arte applicata alla sfera di cuoio, e soprattutto come umanità inoculata del calcio. E chi rinnega e ha criticato, o critica ancora a prescindere, a distanza di anni, o specula, ha due identikit precisi: o non capisce nulla di calcio oppure mente spudoratamente.

Welcome Back, Pupi. Bianconero Del Piero, nerazzurro Zanetti. E non parliamo di appartenenza ad una gamma di colori, ma proprio di una definizione cromatica. Come il rosso Bologna, il verde smeraldo e via discorrendo. Se Del Piero rappresenta il bianconero per eccellenza, Zanetti è il contraltare interista. Ieri è rientrato, dopo la rottura del tendine di Achille. Per lui, sei mesi e rotti di stop. Tutto nella norma, pensano gli ignoranti: un brutto ma naturale infortunio per un calciatore, e un tempo giusto per un rientro difficile dopo un'operazione. Il problema è che il lungodegente, cari signori, ha quarant'anni suonati, compiuti lo scorso agosto. Eppure ieri sera è rientrato in campo, in un commovente coro di applausi e cori. Perchè ci ha creduto fin dal primo momento, perchè non ha voluto ascoltare i catastrofisti, gli infedeli, i falchi della "carriera finita". Perchè lui è l'Inter, la sente troppo addosso, e non poteva salutare una carriera da favola in un modo così traumatico e in un momento così delicato per la storia nerazzurra. Javier è tornato perchè sente di poter dare ed essere ancora tanto. Ed è quasi certo che tra nerazzurri e non, siano in pochi, in Italia, ad essere così miopi e stupidi a non applaudire ammirati a questa incredibile fiaba.

欢呼, Marcello. Internet mi segnala che quei due sgorbi vogliono dire "bravo". L'unica parola meritata da un allenatore indubbiamente antipatico, arrogante, pienissimo di sé, ma anche eccezionalmente dotato. L'impresa è di quelle non da poco, di quelle che fanno entrare dritti nei libri di storia del calcio. Marcello Lippi da Viareggio è il primo allenatore di sempre capace di portare a casa due Coppecampioni, o Champions League che dir si voglia, in due continenti diversi. Se il volo in Cina di un anno fa poteva sembrare una dorata, strapagata ed esotica pratica di prepensionamento, le vittorie in serie colte dal suo Guangzhou rappresentano l'ennesima conferma della fama meritata di vincenti dei nostri mister all'estero. Dopo le vittorie in bianconero e, soprattutto, il Mondiale di Berlino del 2006, Marcello ha saputo mettere da parte le delusioni sudafricane e ripartire dove nessuno avrebbe nemmeno pensato di mettere piede. E ha avuto ancora ragione lui, entrando di diritto nel guinness dei primati di uno sport affrontato da sempre con le stimmate del vincente.

Tre uomini, tre carriere da sogno. Ma soprattutto, tre storie che sopravanzano le divisioni di bandiera e uniscono tutti gli amanti del calcio in un coro di applausi a cui è impossibile non partecipare. Questo tipo di eccellenze sono da celebrare al di là delle sterili discussioni di bandiera o campanilismo tipiche del DNA di noi italiani. Proviamoci, almeno con loro.

venerdì 8 novembre 2013

Reveillere, e il Napoli fa sul serio...

Non troverete, in questo post, alcuna disamina tecnica e statistica sul Reveillere calciatore. L'ex bandiera del Lione, sbolognata per raggiunti limiti di età dalla squadra del presidente Aulas, arriva a Napoli come toppa momentanea alla carestia (indotta dal fato avverso, dagli infortuni) di terzini tra Castelvolturno e dintorni. E già questo dovrebbe bastare a far sì che competenti e tecnici non facciano corse al dare fiato alle trombe sui perchè e i per come dell'acquisto del giocatore.

L'arrivo a Napoli di Reveillere è una dimostrazione chiara, precisa, completa ed efficace di serietà e volontà, da parte del club, di credere nel proprio progetto e nel lavoro del proprio allenatore. Per carità, esistono terzini migliori, nel mondo, già anche nel campionato italiano o nello stesso organico degli azzurri. Eppure, domanda: quando mai il Napoli ha avuto la celerità di incerottarsi subito con un acquisto al volo per un'improvvisa mancanza di calciatori? E soprattutto, quando mai queste falle improvvise dell'organico sono state puntellate in tempo reale, tra l'altro con calciatori di comprovata esperienza internazionale?

Mai, esattamente. Passi per il rapporto di odio, amore e ripicche varie tra il presidente De Laurentiis e Mazzarri, passi per la (giustissima, oltremodo condivisibile) idiosincrasia del club nel trasformarsi a stagione in corso, e passi anche per la presunta spilorceria del presidente nell'acquistare calciatori di grido. Al netto di tutto questo, l'operazione-Reveillere è una prima assoluta, una perla di mercato, peraltro di discreta qualità. E dimostra che gli azzurri ci credono, vogliono crederci e non lasceranno nulla di intentato, tra campo, scrivanie e box mercato, nella corsa che porta alla gloria di primavera. In Italia come in Europa. Il Napoli rischiava di presentarsi dopo la sosta, ovvero nel momento clou della stagione-Champions e nel bel mezzo del ciclo terribile che porterà all'anno nuovo, con soli due terzini, entrambi tra l'altro con spiccate caratteristiche offensive. E invece, ecco subito un calciatore in grado di coprire le fasce con il giusto equilibrio difensivo, reduce da un decennio di esperienze in Europa e immediatamente abile ed arruolabile.

Applausi, dunque, innanzitutto all'intervento immediato, salvifico del club. Poi a Benitez, responsabile unico di un cambio di mentalità totale all'interno della squadra, capace di trasformarsi da agguerrita armata brancaleone tipica della miglior provincia calcistica italica in club moderno, modello, apprezzato ed apprezzabile per gioco, serietà comunicativa e appeal mediatico in tutta Europa.

Reveillere potrà anche giocare malissimo, da qui alla fine dei tempi. Eppure, il Napoli ci ha provato, facendo improvvisamente tornar diritto il naso a chi lo storceva e reclamava la necessità di interventi sul mercato di gennaio. Hanno fatto di più, a Castelvolturno, intervenendo anche prima. E poi, vuoi vedere che l'antipasto-Reveillere possa fare solo da apripista ad un succulento piatto grande a gennaio?

mercoledì 6 novembre 2013

Napoli-Marsiglia: il commento

I tre punti e Higuain. In mezzo, tante, forse troppe cose che non sono andate per il meglio. E, forse, troppa Juventus nella testa. In  quella dei calciatori, parsi a volte svogliati, abulici, disattenti. E in quella del tecnico, che ha commesso il delitto perfetto di lasciare in panchina un Hamsik in gran spolvero per dare ad un inguardabile Pandev una chance forse troppo avventata. Eppure, potere della fortuna e della classe, il Napoli fa fagotto e si prende i tre punti più importanti della sua Champions, riscoprendo il miglior Higuain e presentandosi alla vigilia del match di Torino con una situazione-qualificazione sicuramente non semplice, ma non certo utopica, alla luce anche della vittoria dell'Arsenal in casa del Borussia Dortmund.

La partita si è aperta malissimo. Non tanto per l'episodio del gol del Marsiglia, un infortunio difensivo su azione da corner che può capitare praticamente a chiunque, ma per le difficoltà che questo episodio ha improvvisamente insinuato nella partita. Il Napoli, con l'immediata occasionissima fallita da Mertens ha subito ribadito che questo OM era, se non poca cosa, in ogni caso facilmente domabile. Eppure, è andato sotto. La reazione è stata di puro carattere, con due gol belli nella fattura e nella conclusione ma nati da azioni non manovrate, non da Napoli di Benitez. Altro fatto inconsueto da sottolineare. Da lì, primo tempo condotto in porto in surplace, senza accelerare. Altra cosa non da Napoli: il secondo tempo è iniziato sulla falsariga del primo, con un Marsiglia però conscio della serata non eccezionale degli azzurri. E pochissimo, ai francesi, è bastato per mettere alle corde gli azzurri, che hanno concesso una lunga serie di occasioni prima di suicidarsi con un Armero quasi comico nel concedere all'ottimo Thauvin il gol del pari.

Giusto dazio per un Napoli molto al di sotto del suo standard, poco intenso e scarsamente concentrato. Giusto dazio per una squadra costretta a inseguire un gol vittoria necessario per sperare negli ottavi di finale. Hamsik entra e cambia il Napoli, se non nella sostanza, almeno nella presenza e nel peso del gioco sulla trequarti. La friabile difesa francese cede quasi subito alla rinnovata pressione azzurra, che trova l'appunto-doppietta di Pipita Higuain dopo l'ennesima ottima giocata di Mertens. Il gol cambia la partita, rigettando l'OM in avanti e ricacciando il Napoli a difesa di un risultato d'oro. Stavolta, la difesa arruffona della serata non cigola, e gli azzurri, con patemi minimi, arrivano al novantesimo con la vittoria.

La vittoria, e poco altro, quindi. Eppure, va bene così. In primis, perchè la gara si era messa male e si sa che le vittorie colte in questo modo sono quelle più belle, più ricordate, più psicologicamente importanti. In secundis, perchè si sentiva nell'aria un profumo di Juve-Napoli troppo forte per essere ignorato, e presentarsi a Torino con una vittoria è tanta roba, specie se accompagnata da un sostanziale turnover. Nonostante tutto, le sensazioni puramente tattiche e di gioco sono non espressamente positive. Il pilota automatico inserito all'inizio della ripresa è stato eccessivamente precoce, e non tutte le difese sono mediocri come quella dell'OM. La voglia di risparmiare energie e calciatori in vista della sfida di Torino poteva costare e stava costando troppo al Napoli poco concentrato visto contro l'OM, ma la classe degli interpreti a volte basta a sopperire alle mancanze di gioco. Buon per il Napoli, stasera. Ma bisogna ripartire dalla convinzione che non sempre, soprattutto al netto della fortuna, solo questa classe, per quanto di altissimo livello, possa bastare. Non tutti sono il Marsiglia, e scommettiamo che già sabato a Torino il Napoli si accorgerà della differenza?

martedì 5 novembre 2013

Juventus-Real Madrid: il commento

Il risultato è l'ultimo dato che analizzeremo. La notizia dell'incredibile vittoria del Copenaghen contro il Galatasaray crea un paradosso in piena regola, con una Juventus felicissima di essere orgogliosa ultima del girone e pienamente soddisfatta del pareggio. Ci concentreremo su disquisizioni puramente tecniche e tattiche, non potendo però prescindere dall'altissimo impatto emozionale e di atmosfera provate allo Stadium.

La Juventus ha dimostrato, per la seconda volta, di non essere inferiore ai Blancos. A livello di gioco, di grinta, di capacità agonistica, le due squadre sono apparse a pari merito nel contesto totale dei centottanta di gioco. La differenza sta nella qualità dell'interprete singolo, ancora immensamente più alta negli undici in maglia Real. Basti pensare al primo tempo perfetto della Juventus: gara accorta, squadra corta ed organizzata, compatta, grintosa come ai bei tempi e capace di mordere i campioni madridisti a tutto campo. Palese anche la superiorità del collettivo bianconero, che ha automatismi meno freschi di vernice e riesce a chiudere all'angolo per tutta la prima frazione la truppa di Ancelotti. Eppure, non si va oltre l'uno a zero: la Juventus, al massimo del suo fulgore, segna un misero golletto, tra l'altro su (sacrosanto) rigore, e chiude il miglior primo tempo della sua stagione con il minimo vantaggio.

Ma non solo: apriamo lo scrigno degli "Sliding Doors" e immaginiamo la partita senza il grossolano errore del peraltro generosissimo Caceres. Sarebbe finita così? La risposta, probabilmente, è sì. Comunque, in ogni caso. Perchè l'errore di Caceres rientra nella normalità di un essere umano. Non è umana, ma da grandissimi campioni, la capacità del Real di approfittare cinicamente del minimo spiraglio, con un Ronaldo che non sbaglia mai e una squadra che annusa l'aria buona e gira la partita. Qua sta la differenza. La traversa di Xabi Alonso (trema ancora), la saetta di Bale. Tutto in pochi vertiginosi secondi. In un lampo, la miglior Juventus di questa Champions si ritrova immediatamente sotto, pur senza meritarlo. I famosi top player, che nel calcio di oggi valgono come se non più del gioco di squadra, cambiano la partita e sovvertono i meriti, come una raccomandazione in un concorso pubblico.

Ora, il gol di Llorente rientra nel normale algoritmo della giustizia divina, perchè un'altra sconfitta, per questa Juventus, sarebbe stata davvero troppo. Ma il sentore è quello della miglior squadra italiana ancora troppo distante da un album di figurine di mostri che diverranno forti come, se non di più, degli altri titani in maglia Bayern o Barcellona, Chelsea, PSG o Man Utd. Ancelotti ha per le mani una bomba pronta a deflagrare. Sta solo a lui capire come sfruttarla per il meglio e lanciarsi in maniera convinta verso la Decima. 

Discorso classifica e qualificazione: Braaten fa un regalo clamoroso a Conte,  con un gol che vale quasi un ottavo di finale. Il Real è già primo pareggiando col Galatasaray al Bernabeu, alla Juventus servirà non perdere in Turchia. Dando ovviamente per scontata la vittoria casalinga col Copenaghen. Non sarà facile, ma ora la situazione è meno nera. Un po' di rammarico per l'occasione di una vittoria col Real non ancora alla portata, ma di certo non utopica e comunque accarezzata: si poteva essere a cinque punti, con la possibilità di trasformare Galatasaray-Juventus in un'amichevole. Per il resto, tutto in cascina: saranno anche ultimi, i bianconeri, ma ora il fieno da mangiare per la qualificazione risulta un attimino meno indigesto.

domenica 3 novembre 2013

Napoli-Catania: il commento

Un'analisi superficiale, che parta dal mero risultato per sviscerare questo Napoli-Catania, risulterebbe ingannevole fin dallo startup. Il due a uno, difatti, è risultato a dir poco riduttivo per quanto visto in campo ieri sera al San Paolo. Venti minuti da top club, trenta secondi di sbandamento difensivo e altri settanta e rotti giri di lancetta di perfetto controllo sul match, con almeno cinque palle gol malamente cestinate: in estrema sintesi, gli azzurri visti ieri col Catania.

Il Napoli è parso in forma, brillante, organizzato, bravo come al solito nel trovare subito il gol e scongiurare la gara di sole barricate degli ospiti di turno del San Paolo. Una delle più belle partite interne, per la truppa di Benitez. Ciò che però colpisce è la grande intelligenza di questa squadra, per l'ennesima volta capace di portare a casa il massimo risultato con uno sforzo, se non minimo, almeno commisurato ed in proporzione alla difficoltà dell'occasione. Non c'è più, probabilmente, il Napoli arrembante e furioso che siamo abituati a conoscere. Esiste ora un Napoli in grado di vincere le partite con la forza della sua classe, con la forza di un gioco di possesso, ripartenze e scambi veloci che sublima le qualità degli uomini offensivi e rende la vita meno apprensiva ai componenti della difesa.

Grande merito a Rafa Benitez, artefice massimo di questa metamorfosi. Ha presentato il suo gioco, ha insistito su questa strada ma ha saputo anche esibire una certa, innegabile elasticità di fondo: il Napoli di oggi esprime il meglio del suo repertorio quando esce palla al piede dalla sua difesa, sfruttando le qualità da contropiedisti di quasi tutti i suoi undici in campo. Il Napoli di oggi è un cocktail quasi perfetto tra un godibile gioco di possesso e una straordinaria capacità di sfruttare in verticale i palloni recuperati dalla difesa. Adattabilità e cocciutaggine: l'ossimoro che si realizza nella galassia-Benitez.

Note dolenti: sarebbe un peccato gettare a mare tutto per la scarsa profondità della rosa. L'infortunio patito ad inizio gara da Mesto ha scoperchiato la falla più clamorosa dell'organico azzurro: quella dei terzini. Con Maggio squalificato e Zuniga lungodegente, i soli Mesto e Armero non sono bastati. L'infortunio dell'ex Reggina ha costretto Benitez a recuperare addirittura Uvini, centrale adattato e autore di una prova comprensibilmente insicura e timorosa. La difesa paga scarsità di uomini e di esperienza, e l'infortunio di Britos, al netto dello stesso, difficilmente ripresentabile Uvini, mette la batteria di centrali nelle stesse condizioni, col solo ed epurato Cannavaro come unico rincalzo. Due mesi al mercato di gennaio. I tifosi devono sperare nella fortuna dei non infortuni, altrimenti molti punti potrebbero essere sacrificati sull'altare di un mercato estivo terribilmente squilibrato in avanti.

Chiudiamo con il Catania, e andiamo controtendenza, contro la classifica e contro le sensazioni più immediate. Questa squadra si salverà, e parliamo a ragione dell'insospettabile coraggio nel venire a Napoli e non fare barricate pure. In questo senso, da segnalare l'ottimo inizio di gara per pressing e capacità di tenere basso il Napoli. Il bellissimo gol di Callejon ha scompaginato i piani di De Canio, il raddoppio è stata una mazzata che avrebbe affossato chiunque. Gli etnei, invece, hanno saputo rialzarsi e rimettere in piedi un discorso dato frettolosamente per chiuso. Non hanno pareggiato per oggettiva inferiorità tecnica, ma per loro fortuna sono poche le squadre forti come il Napoli. L'atteggiamento è quello giusto, mancano un po' di fortuna e ...avversari più abbordabili. Forza e coraggio.

giovedì 31 ottobre 2013

Fiorentina-Napoli: il commento

Cominciamo dalla coda, dal veleno. Il fallo su Cuadrado era da rigore. Netto, senza se e senza ma. Certo, si potrebbe obiettare che Cuadrado cade volando tipo tuffo a mare dopo e non per colpa del calcetto malandrino di Inler. Oppure, qualcuno potrebbe raccontare la storia di al lupo al lupo, sostenendo che i mille voli del colombiano gli sono costati l'idiosincrasia arbitrale a fischiargli il penalty. Eppure, questi sono discorsi che non tengono: il calcio di rigore era netto, andava fischiato. E forse, avrebbe rimesso le cose a posto in quanto a risultato.

Qui sta la nuova, inattesa grandezza della squadra di Benitez. Ricordate, in maniera immediata, qualche Napoli di Mazzarri vittorioso senza meriti, magari in una partita come quella di Firenze in cui la squadra è stata schiacciata indietro per buona parte del minutaggio? Esatto, no. Non potete, perchè il Napoli a cui eravamo abituati era una squadra in grado di vincere solo esprimendosi al meglio, con le frustate in ripartenza tipiche della squadra in salute difensiva e con bocche di fuoco accese in avanti.

Oggi, la musica è cambiata: il Napoli, forse, non meritava di vincere. Eppure, l'ha fatto. Forte dei suoi campioni, forte della sua capacità di resistere al gioco avvolgente dei viola, forte di una consapevolezza nei propri mezzi figlia del grande lavoro di Benitez. Forte, finalmente, anche di quell'esperienza nella gestione della gara e delle risorse che aveva sempre fatto difetto alle ultime edizioni degli azzurri. Il lancio di Mertens, poi, è stato un capolavoro del tecnico madrileno: il belga ex Psv è stato centellinato all'inizio, e ciò gli ha consentito un inserimento graduale e senza traumi. Poi è stato acceso come un barilotto di dinamite nei cartoni, con quelle micce lunghe che hanno solo poi amplificato il botto di una classe e una tecnica non comuni e ora riconosciute da fatti e rendimento. Ora il Napoli ha alternative concrete in avanti, con un centravanti come Higuain in grado di essere uomo assist e squadra e una batteria di supporto, con il capolavoro di mercato Callejon (sei gol per lui in stagione), che può addirittura concedersi il lusso di far addormentare Hamsik nel un suo classico periodo di appannamento (in ogni caso lo slovacco è a cinque gol in campionato, tanta roba). Con qualche pedina in più in difesa, questa squadra diviene non solo assolutamente eccezionale, ma anche pronta a correre per tutti i traguardi fino a maggio.

Dall'altra parte, senza fallo, la miglior squadra affrontata finora dagli azzurri. I viola hanno impressionato, molto più della Roma, per qualità di gioco e interpreti. Rossi è di un'altra categoria, Cuadrado deve solo limare eccessi, atteggiamenti ed esagerazioni tecniche e comportamentali. Smussati gli angoli, diverrà campione e fuoriclasse capace di spostare partite ed equilibri. Pizarro è sempre al top, Pasqual è il meglio che c'è in Italia sulla fascia sinistra. Con un Gomez in più e uno Joaquin con maggior minutaggio nelle gambe, questa squadra è da pienissima zona-Champions. Per essere da scudetto, manca qualcosa nel purissimo settore difensivo: Roncaglia non è un terzino destro, Savic può migliorare e Compper non vale il grande assente Gonzalo Rodriguez. Il vero top player, però, siede in panchina. Montella fa giocare bene la sua squadra sempre, senza dubbi o intermittenze. Il Napoli è stato schiacciato fin da subito con la forza d'urto del gioco, non con la forza d'urto e basta (Juve-style, per intenderci). Come detto, alcuni interpreti non hanno o non hanno ancora le qualità per sottendere in toto le idee dell'Aeroplanino, ma la sensazione è quella di una grande squadra riuscita ad esser tale soprattutto per la bravura di un allenatore serio, intelligente e soprattutto dalle grandi doti.

Peggiore in campo l'arbitro, e questo l'abbiamo già detto. Tra due grandi squadre, il vero sconfitto è lui. Appuntamento al ritorno: scommettiamo che assisteremo ancora ad una delle più belle partite del campionato?

C'è poco da stare Allegri o c'è poco da stare, Allegri?

Il vecchio gioco dei libri di grammatica per far capire l'importanza del posizionamento di una virgola in una frase. Un vecchio gioco che sintetizza in maniera perfetta il momento orribile del Milan, che impatta in casa con la Lazio e rimane impalato a dodici punti, a meno tredici (!) rispetto alla zona-Champions. Un vero disastro tecnico, societario e d'immagine. Una situazione difficile e difficilmente preventivabile che vede schierata, per la primissima volta, anche tutta la tifoseria in un fronte comune: quella del dagli a Max Allegri, allenatore rossonero.

Nella controversa esperienza del tecnico livornese sulla panchina del Milan, tantissime sono state le volte in cui si è parlato di esonero. Ad ogni inizio anno, per l'esattezza. Poi venne lo scudetto 2011, poi venne il bis sfiorato nel 2012, poi venne la rimonta-Champions dell'anno scorso. In tutta onestà, parlare di scenari come questi, adesso, rasenta la fantascienza. Oltre che l'incoscienza. Il motivo è facilmente individuabile: attualmente, il Milan non ha un'identità di gioco precisa, non è una squadra nel senso stretto del termine. Certo, grinta e attaccamento alla maglia non sono mai mancati, e testimoni di un atteggiamento positivo sono le rimonte completate (Bologna, Amsterdam) o abbozzate (Parma) di questo primo scorcio di stagione. Ma da sole, queste qualità non bastano più al tifoso milanista, stanco di una squadra incapace di produrre un gioco accettabile.

Nasce da qui la prima, storica contestazione ad uno dei tecnici preferiti dalla curva milanista, sempre indulgente verso l'allenatore livornese. Ok la solita, terrificante sequela di infortuni. Va bene anche per la qualità non eccelsa (eufemismo) di una difesa inadeguata, mediocre e pure al di là con l'età, e dell'improvviso letargo di un uomo chiave come Balotelli. Ma le giustificazioni finiscono qui, e si sa presto che quelle che non rispondono a fatti concreti si trasformano presto in alibi. Il Milan aveva un Supermario in più nel motore fin da inizio anno, aveva ritrovato De Jong, ha ripescato un Kakà non impresentabile, si ritrovata in casa un Robinho rigenerato e ha pescato dal mazzo un jolly forse non proprio da campioni, ma sicuramente affidabile coma Birsa (sei dei punti rossoneri sono tutti suoi: un 50% che fa riflettere). Eppure, non si è mai vista la squadra rossonera giocare bene, se non in alcuni spezzoni isolati di alcune gare. Cambi continui di formazioni, idee, combinazioni. Una punta con due trequartisti, due punte e mezza, tre punte reali, falso nueve e chi più ne ha più ne metta, in un'accozzaglia che non denota certo le qualità di piccolo chimico dell'allenatore, ma ne sottolinea più che altro la confusione mentale.

Ecco perché c'è poco da stare, Allegri. Il tempo a disposizione sembra ormai scarseggiare, ed è quasi certo che un altro passo falso in un altro scontro diretto (al netto di una classifica imbarazzante), quello con la super-Fiorentina di Montella, costerebbe la panchina a Max. Continuare con lui nonostante la sfiducia dell'ambiente sarebbe grande esercizio di fiducia e cocciutaggine, doti rare da trovare nel panorama dei rapporti società/panchine del calcio italiano. Doti che, però, nel caso di un rapporto logorato e mai pienamente sbocciato come quello tra Allegri e il Milan, potrebbero anche avere il risvolto sempre in agguato dell'autolesionismo.

Ma c'è anche poco da stare Allegri, senza virgola. Il cambio tecnico, oltreché rappresentare una sconfitta per tutto l'ambiente Milan, equivarrebbe ad un vero e proprio salto nel buio. Top coach liberi non se ne trovano, e la soluzione interna rappresentata da Inzaghi è affascinante quanto rischiosa. Più che sull'allenatore, quindi, il club rossonero dovrebbe meditare sulle sue pessime condotte di mercato, sull'incapacità perenne di conferire all'organico un equilibrio accettabile tra potenziale offensivo e difensivo, sulla difficoltà nel dotare la squadra di un elenco di calciatori in grado di assicurare un rendimento costante.

Ricordiamoci che il club più titolato al mondo, da un po' a questa parte, è sovente costretto a schierare gente come Constant, Zaccardo, e i pur non disprezzabili Zapata e Birsa. Siamo sicuri che sia proprio tutta colpa di Allegri?

martedì 29 ottobre 2013

Mazzarri: pregi e difetti

Premessa: Walter Mazzarri è uno dei migliori allenatori della Serie A. Lo dicono gli almanacchi, sacra bibbia depositaria dell'unica verità incontrovertibile del calcio, quella dei risultati. Anni e anni costellati di successi, di grandi stagioni, di squadre costruite ad un'immagine e somiglianza che prima o poi non poteva non contemplare un'esperienza nell'Olimpo della grande squadra. Nella fattispecie, l'Inter.

Eppure, qualcosa non quadra.

Spieghiamoci. C'è qualcosa, nella genetica delle squadre di Mazzarri, che sembra essere antitetica ai corredi delle grandi squadre in senso stretto. Quelle che vincono, per intenderci. Fateci caso: la bacheca di Mazzarri è riempita dalla sola Coppa Italia vinta col Napoli due stagioni orsono, e in più una promozione dalla B alla A col Livorno. Stop. Un po' pochino, ammettiamolo. Ok che il vate di San Vincenzo è giunto solo tre anni fa, col primo Napoli da corsa con Cavani in campo, alla guida di una macchina in grado di competere per le prime posizioni, ma è vero pure che le occasioni avute per centrare i bersagli grossi siano state non solo mancate, ma neanche lontanamente sfiorate. Lo scudetto del 2011 è stato annusato per qualche settimana causa sonno del Milan, quello dell'anno successivo è stato sacrificato sull'altare del noviziato Champions. Diktat presidenziale, ristrettezza dell'organico, immaturità ed inesperienza ad altissimi livelli, per quel Napoli. Non alibi, ma fatti documentabili e ampiamente documentati. Altro giro, altra corsa nel 2012/2013: l'impegno da contemplare era solo il campionato, data l'idiosincrasia (giustificata?) dichiarata del club azzurro all'Europa League e l'abbandono precoce dalla Coppa Italia. Eppure il Napoli è parso acerbo anche stavolta, poche volte in grado di competere direttamente, occhi negli occhi, con la Juventus. Poi questa Inter, sensazione positiva in avvio e poi tipica squadra mazzarriana, bella e brava a tratti e poi grande incompiuta nei match che fanno da travi portanti ai campionati vinti (Cagliari e Bergamo proprio stasera, al di là della sconfitta con la Roma di Garcia).

Perché? A Napoli alcuni tacciavano Mazzarri di provincialismo, di incapacità di trasformarsi davvero in top coach, in allenatore da grande squadra capace di gestire con acume e tranquillità le incombenze di una stagione da vertice, dalla prima alla trentottesima coppe annesse. Forse la critica è esagerata nei termini, ma non lo è nella sostanza: anche a Milano, il mister livornese non riesce a venire a capo di gare difficili, ma che una grande squadra deve affrontare aspirando ad una vittoria che sia netta, indiscutibile, violenta nella sua spietata certezza. C'è sempre un'idea latente di sofferenza e di ansia, anche in partite vinte in maniera relativamente facile. Esempio, Inter-Verona. E' sempre incombente l'ansia di non riuscire a portare a casa la partita: le squadre di Mazzarri, per vincere, hanno bisogno di esprimersi al massimo. Al cinquanta per cento, è molto difficile che si vinca o si segni al netto di qualche estemporanea invenzione dei campioni in campo. Eppoi, i difetti storicamente riconosciuti al mister: testardaggine sul modulo, cronica sfiducia nei confronti di giovani ed alternative (una coppia d'attacco Palacio-Icardi dal primo minuto non scatenerebbe alcuno scandalo politico) e ripetitività nei cambi  e nelle variazioni a partita in corso.

Il quadro che viene fuori è quello del tecnico capace di avviare i grandi cicli, ma incapace di chiudere il cerchio della gloria con una vittoria. Vedasi Sampdoria e Napoli. Probabilmente, Mazzarri ha già dato all'Inter ciò che i nerazzurri più sbandati di sempre gli avevano messianicamente chiesto: un'identità di gioco, un'idea almeno parvente di gruppo unito, il recupero di alcuni calciatori, l'invenzione-riscoperta di altri (questi Alvarez e Jonathan valgono da soli una medaglia al valore calcistico), uno spirito combattivo e una condizione fisica, al netto dei normali contrattempi fisici, almeno presentabile. Il problema è che l'Inter, la grande blasonata che Mazzarri aveva sempre invocato ed inseguito (ricordate il matrimonio estivo con la Signora prima del divorzio in contumacia e l'arrivo di Conte? Era il 2011...), non sa e non può accontentarsi di questo. Per quest'anno forse sì, ma per gli altri occorrerà attrezzarsi. Il dubbio è proprio questo: Mazzarri sarà in grado di essere Mazzarri anche quando ci sarà da vincere in senso totale? Al tempo, ai posteri e al pallone l'ardua sentenza...

domenica 27 ottobre 2013

Napoli-Torino: il commento

Non sarà ricordata come una delle più grandi partite azzurre, questa interna col Torino. Eppure, è attraverso gare come questa che si costruiscono le grandi stagioni. Due a zero in surplace, con doppietta del Pipita Higuain su calcio di rigore, e tre punti portati a casa con la semplicità della grande squadra.

Sintesi veloce ma performante, efficace, cinica. Tre aggettivi che possono tranquillamente calzare anche al Napoli del lunch match visto contro i granata: il merito principale di Benitez è quello di aver saputo iniettare negli azzurri la mentalità della squadra di rango, capace di mettere spalle al muro l'avversario senza ricorrere ad assedi e o sfuriate. Con la classe, la calma. Qui sta il Napoli performante dei primi minuti. Poi c'è l'efficacia, che nasce dall'ormai completo inserimento del folletto Mertens negli schemi: è suo il palleggio volante che costringe l'ingenuo Bellomo a sgambettarlo in piena area. Rigore sacrosanto, trasformato da Higuain. Poi c'è il cinismo, che ti porta a non cristallizzarti nel vantaggio ma a cercare senza ossessività il raddoppio. Il secondo rigore nasce da questo atteggiamento, nuovo per gli azzurri, e insieme dalla pochezza offensiva del Torino, assolutamente azzerato dal vantaggio azzurro. Il fischio per il fallo di mani a Glik è dubbio se non quasi inesistente, ma Higuain non si fa intenerire e trasforma ancora.

Da qui, fine della cronaca e inizio dell'analisi. La partita vera finisce qui, perchè il Torino sceso al San Paolo sperava di emulare il Sassuolo e costringere gli azzurri agli assedi finali sul punteggio di parità. Nulla di tutto questo, per i motivi sopra descritti e per la capacità tutta nuova del Napoli di aggirare le difese con la forza di un gioco vario e multisfaccettato, e non più tramite il solo ritrito spartito. Gara condotta in porto con la calma dei forti, con un terzo gol ripetutamente sfiorato e con la quasi totale inoperosità di Reina e pacchetto difensivo. Gli unici pericoli portati dal Torino sono nati da tiri da fuori e o da momenti estemporanei della gara.

Gli uomini in campo, nonostante la sfida di Marsiglia nelle gambe, hanno risposto benissimo alla sollecitazione della terza gara in poco più di una settimana. Mertens ancora tra i migliori, bene anche Inler e Albiol. Un po' arruffone Insigne, mentre i top player Hamsik e Higuain vivono un letargo vigile: il primo, in un periodo di scarsa brillantezza, si insinua nelle trame ma non graffia, il secondo paga ancora l'infortunio ma gioca per la squadra e fa il suo dovere dal dischetto. Buone notizie dalla difesa, o meglio, da ciò che ne rimane: Armero deve solo aggiustare i piedi, Fernandez è apparso un pizzico più sicuro.

Sotto col tour de force, ora: c'è la super-Fiorentina da affrontare, e non sarà facile. La squadra viola opporrà agli azzurri il suo gran gioco e il momento di forma mista ad euforia dopo tre ottime vittorie consecutive. Si scende in campo a stanchezza pari (anche la squadra di Montella è impegnata in Europa) e col conforto di una classifica che, Roma a parte, non è scintillante solo per l'inghippo-Sassuolo. Ma c'è tutto il tempo di rimediare, e le promesse per farlo ci sono proprio tutte.

sabato 26 ottobre 2013

Scene da un Clasico

Al fischio finale, è come alzarsi dalla tavola di una domenica napoletana. Sazi, saturi, satolli. Di calcio, non di cibo come nella metafora di paragone, ma la sensazione è comune, è similare. Un'overdose di spettacolo pallonare.

Il risultato al novantesimo dice due a uno per il Barcellona, con tanti cari saluti alla nuova imbattibilità del Madrid (cinque gare senza sconfitte contro gli azulgrana) e un bentornato ad Alexis Sanchez, l'uomo che più di tutti ha goduto della cura di Tata Martino. 

Il verdetto del Camp Nou è chiaro: al momento, il Barça è più squadra. I ragazzi di Martino sono più compatti, giocano d'insieme e fa niente se a livello di gioco siamo ancora sotto il 50% delle reali, immense possibilità della squadra. Il nuovo corso non prevede, o meglio, non prevede solo gli exploit di gioco di possesso cari ai predecessori Guardiola e Vilanova: si professa e si professerà calcio più raziocinante, più concreto, forse meno spettacolare, ma sicuramente più efficace e meno per i fotografi. E' roba diversa: una roba che però, i blaugrana, paiono aver fatto già propria. Siamo ancora all'inizio della corsa, ma i meriti del misconosciuto tecnico argentino sono già sotto gli occhi di tutti: squadra non più stressata dalla doppia esasperante fase possesso-pressing, qualche veronica in meno, qualche verticalizzazione in più. In questo modo, Messi forse gioca meno da solo, duetta e tocchetta senza esagerazioni. Ma la squadra pare averne guadagnato in armonia ed autostima. 

Esatto, proprio autostima: prendete Neymar e Sanchez, i due goleador dell'incontro. Con il vecchio Barça, il giovane fenomeno ex Santos avrebbe mai potuto imporsi così fin da subito? Avrebbe mai potuto sentirsi immediatamente al centro del progetto tattico della squadra, o avrebbe dovuto pagare dazio alla legge-dittatura di Messi e alla necessità di passare per forza da lui nella strada che porta al gol? Chiedere a Ibra. Chiedere, per l'appunto, a Sanchez: il Nino Maravilla ha avuto subito parole al miele per il nuovo allenatore, capace di rigenerare lui a la sua autoconsiderazione. Nonostante la panchina iniziale, l'ex folletto dell'Udinese è entrato e ha regalato al Camp Nou un gol sontuoso, un meraviglioso pallonetto a scavalcare Diego Lopez. Un calciatore privo della necessaria fiducia sarebbe in grado di avere tale impatto in una gara così importante? Esatto, la risposta è no. Bravo Tata: stai riuscendo nell'impresa più difficile. Normalizzare il Barcellona.

Dall'altra parte, il Madrid. Come già sostenuto su queste frequenze, la ciurma di Ancelotti pare tale solo di nome. Il Real di oggi è un'accozzaglia di figurine, al momento priva di quella coesione tattica e d'intenti che fa grande una squadra di calcio. Analizzando la partita, la differenza sostanziale tra le compagini sta proprio qui: il numero di occasioni è quasi pari (il palo colpito da Benzema trema ancora, mentre Valdes si è dimostrato super in almeno un paio di circostanze), ma lo scarto sta proprio nella capacità di gestire d'insieme il momento topico della partita, quello del vantaggio firmato da Neymar. Il Barça ha continuato a giocare tranquillamente, da squadra in senso stretto, mentre il Real è parso assolutamente innocuo nella sua veste senza attaccanti di ruolo. Ancelotti dovrà lavorare molto per trovare la quadratura del cerchio, e la ripresa fatta di sfuriate appena dopo l'inversione tattica conferma una volta di più la necessità merengue di superare l'effetto-Bale (impalpabile, il gallese) e di inquadrare il suo acquisto in un sistema di gioco coerente. Che non può ovviamente prescindere da Ronaldo, ma tantomeno da Benzema o Di Maria.Sta qui il lavoro dell'uomo di Reggiolo: rendere squadra un gruppo ancora non degno di chiamarsi tale. Riuscire, insomma, dove addirittura Mourinho, incredibilmente bruciatosi nella folle corrida di un ambiente da paura, ha fallito. In bocca al lupo, Carletto...

giovedì 24 ottobre 2013

De Canio per Maran: liofilizzato di calcio all'italiana

Confrontiamo: Catania giugno 2013 con Catania ottobre 2013. Parliamo di calcio, ovviamente.

Giugno 2013: i rossoazzurri di Maran terminano il campionato all'ottavo posto, addirittura davanti all'Inter, cogliendo il record di punti in Serie A e mettendo in mostra uno dei collettivi più affiatati ed invidiati dell'intera serie A. Un inno alla continuità, alla sagacia, all'intelligenza della gestione etnea, capace di assorbire l'addio di Montella (giugno 2012) e di partorire una stagione ancora migliore, e dal punto di vista del gioco, e dal punto di vista dei risultati. 

Ottobre 2013: Pulvirenti, dopo l'eloquente score di cinque punti in otto partite, decide di esonerare Maran. Ovvero, l'allenatore di cui sopra, quello del record di punti, dell'ottavo posto eccetera eccetera. Un rimbecillimento improvviso, una tegola in testa o cos'altro? No, per fortuna per la sanità mentale e fisica del presidente. Semplicemente, la dura legge del calcio italiano, ovvero zero riconoscenza e memoria corta, cortissima. 

Lo scarsocrinito tecnico di Rovereto paga l'improvvisa involuzione della squadra, incapace di produrre un gioco accettabile e soprattutto risultati, pur essendo stata adeguatamente rinforzata in estate. Ok, smettiamola di fare i paraculi. Quali rinforzi ha avuto il Catania? Lodi è stato sostituito con Tachtsidis, uno che solo Zeman ha saputo vedere in quattro anni di calcio italiano. Papu Gomez, trascinatore etneo nelle ultime annate, è invece stato sostituito con Sebastian Leto, uomo da zero presenze l'anno scorso al Panathinaikos di Atene. Peruzzi e Monzon, i sostituti di Marchese, infine, hanno fin qui avuto la consistenza delle meteore: un passaggio e via. Un solo arrivo decente, Jaroslav Plasil. E a pagare, ovviamente, è il tecnico.

Il grande problema del calcio italiano sublimato in un caso singolo e singolare: quali colpe ha Rolando Maran nell'involuzione totale del suo Catania, se non quella di aver sostituito i migliori uomini della sua squadra con calciatori non ancora all'altezza dei predecessori? Fa niente se a condurre la campagna acquisti è la società: la colpa è e resterà sempre del tecnico, in un misto di irriconoscenza e incapacità di attendere una nuova amalgama e miglioramenti che solo il tempo potrà rendere possibili. Il tecnico è colpevole, punto e basta: nonostante il gran gioco dell'anno precedente, nonostante le buonissime referenze, nonostante tutto. E' l'Italia, baby, prendere o lasciare. E se Ferguson, al Manchester United, ha impiegato tre anni e mezzo per vincere un trofeo, noi vogliamo tutto e subito. Perchè siamo in Italia, e non sappiamo e non vogliamo aspettare. Anche se la colpa è solo nostra, come nel caso del buon Pulvirenti.

E in tutto ciò, il nuovo arrivato? Gigi De Canio, allenatore tosto, tipico gestore di squadre col solo compito di salvarsi. Il buon ex di Napoli, Reggina e molte altre, ha già sancito il nuovo corso etneo, predicando il necessario "ritorno all'umiltà" della compagine rossoazzurra. Come a dire: preparatevi ad un campionato di lotta, in cui ci accontenteremo anche dell'uno a zero conquistato a barricate. A salvezza ottenuta, si spera per i catanesi, tutti contenti. Ma con l'amaro in bocca: l'Italia è questa, baby. Ma è detto, confermato e sottoscritto da qualcuno che debba per forza andar bene così? Non è che forse stiamo sbagliando qualcosa?

mercoledì 23 ottobre 2013

Ibra, Pep, Cristiano Ronaldo: il report del Mercoledì di Coppa

Completata la tripla italiana: vittoria del Napoli, pareggio del Milan e sconfitta per la Juventus, per un 1X2 che lascia con l'amaro in bocca soprattutto i tifosi bianconeri. Il Real che ha battuto la squadra di Conte è lontano anni luce da una possibile e plausibile configurazione galactica, ed ha avuto bisogno di un paio di aiutini arbitrali per non rischiare la figuraccia interna. Per carità, nulla di scandaloso: il rigore di Chiellini è inconcepibile solo per noi italiani, leader mondiali nella corsa alla trattenuta in area, ma l'espulsione è parsa a tutti una palese ingiustizia. Da lì, partita in ghiaccio e qualificazione, ora, davvero difficile per i bianconeri.

Senza le nefandezza arbitrali, sarebbe cambiato qualcosa? Chissà. La sensazione avvertita al Bernabeu, comunque, è confortante: il Real odierno fa paura solo per i nomi in campo, non è ancora una squadra in senso stretto, e vive dell'estemporanea genialità dei suoi talenti. La cura-Ancelotti non ha ancora attecchito, ma se hai un Cristiano Ronaldo così (e l'ha confermato anche il buon Carletto ai microfoni del dopopartita) nulla è precluso nemmeno ad una squadra praticamente ancora al 50% delle sue immense possibilità. La Juventus esce sconfitta, ma non con le ossa rotte: con una prestazione simile, fra quindici giorni, l'impresa casalinga non è impossibile. Basterà recuperare le energie mentali e la grinta che, dopo due anni vissuti con la bava alla bocca, sembrano fisiologicamente mancare. Poi occorrerebbe un Tevez non più schiavo del suo complesso-Champions, ed ecco una Juventus in grado di battere il Real Madrid e riaprire un discorso qualificazione fattosi difficile dopo il prevedibile exploit interno del Galatasaray di Mancini (3-1 al Copenaghen con gol degli assi stranieri Felipe Melo, Sneijder e Drogba).

Se i bianconeri annasperanno per entrare negli ottavi, ecco chi è già praticamente sicuro del pass: il Bayern di Guardiola, il Manchester United e il PSG di Blanc. I tedeschi annientano la flebile resistenza del Viktoria Plzen (e qui giù gli incubi europei dei tifosi del Napoli) con una prestazione Tiki-Taken style, quasi ai livelli del miglior Barcellona targato Pep. Il cinque a zero finale, pur considerando lo scarsissimo spessore dell'avversario, è a dir pochissimo riduttivo se comparato alla mole di gioco e di occasioni costruite dai bavaresi. E abbiamo detto tutto. Non altrettanto semplice la serata di Moyes ad Old Trafford: l'istantaneo autogol della Real Sociedad pareva aver aperto una serata da corrida a Manchester. Nulla di più falso: i baschi hanno saputo rientrare in partita, e più volte hanno spaventato De Gea. La qualificazione è ormai ipotecata, ma è forte il sentore di lavori ancora in corso per il successore di Ferguson sulla tolda di comando dei Red Devils.

E chiudiamo col grande protagonista della serata, Zlatan Ibrahimovic. Ok che l'Anderlecht, avversario del suo PSG, rasentava l'impresentabilità. Ma è vero pure che lo Zlatan di questo mercoledì di Coppa fa quasi impallidire quel Van Basten che aveva reso indimenticabile la stessa serata al ragionier Fantozzi qualche anno fa. Quattro gol quattro, con dentro il repertorio completo dell'attaccante-genio: la zampata d'opportunismo, il colpo di tacco, l'incredibile sediata dalla trequarti e il diagonale che chiude il poker e lancia Zlatan nell'olimpo dei grandi nella storia della Champions. Che sia, per lo Zlatan ossessionato dalla Champions, l'insospettabile anno buono?

martedì 22 ottobre 2013

Marsiglia-Napoli: il commento

Il Napoli di Benitez sublimato in novanta minuti. Questa, in soldoni, la didascalia della partita del Velodrome. Un Napoli brioso, frizzante, in grado di attaccare spazio, campo ed avversari come di concedersi imbarazzanti pause e momenti di sbandamento. Una squadra ancora col cartello dei lavori in corso, ma destinata a dire la sua, fino al fischio finale dell'ultima gara a disposizione, in Italia ed in Europa.

Serviva una risposta dopo la brutta partita di Roma: è arrivata. In trasferta, in campo europeo, seppure contro una squadra nettamente inferiore. Il Napoli ha saputo rialzarsi, mettendo in mostra il meglio del suo repertorio offensivo, sciorinando un calcio a tratti anche piacevole e soffrendo poco o nulla, se non la pressione di un cronometro diventato improvvisamente lento dopo il gol di Ayew. Eccezionale la gara di Behrami e Inler, strepitosa prova di qualità e velocità di Mertens, bravissimo Callejon a farsi trovare pronto. Higuain soffre il periodo di confusione muscolare, e si vede quando si trasforma in Pandev e si divora il gol a tu per tu con Mandanda. Non si è campioni per caso, però: l'apertura per Callejon in occasione del vantaggio vale quasi più della felice conclusione dello spagnolo, e sottolinea una volta di più le qualità di calciatore, oltreché di attaccante puro, del Pipita ex Real Madrid.

Le note liete, poi, si allargano a Zapata, o meglio Duvàn: l'ex Estudiantes preferisce così. Dopo i mugugni in stile Edu Vargas per un approccio complicato all'avventura partenopea, il colombiano si sblocca con un gol da favola, improvviso e accecante come un lampo. Non sappiamo ancora se il Napoli ha imbroccato il terno e scovato una stella, ma di certo, ora, l'acquisto del numero 91 azzurro ha un po' meno il sapore dell'assurdità di mercato. Con questo pieno d'entusiasmo e questo gol, forse, anche le future assenze di Higuain faranno tremare meno i polsi ai tifosi.

Tante buone notizie per Benitez che conclude il quadro del sorriso con la prestazione senza sbavature della difesa, sostanzialmente tranquilla per tutto l'incontro. Un peccato il gol a sorpresa di Ayew, a cui è stato concesso ingenuamente troppo spazio per tentare, ed indovinare, l'unica conclusione a rete dell'intera partita dell'OM. Gli azzurri hanno ritrovato lo smalto parso perduto contro la Roma, e stavolta sono stati meno sfortunati che all'Olimpico, quando avevano sbagliato lo stesso numero di occasioni ed erano stati puniti da Pjanic con un velenoso calcio piazzato. Il Marsiglia non ha oggettivamente la stessa qualità dei giallorossi, e tantomeno ha avuto uguale fortuna. Il Napoli, però, deve ben guardarsi dall'essere così poco cinico in attacco (in questo aiuterà sicuramente il recupero totale, si spera veloce, di Higuain) e a volte poco lucido in difesa. Una volta superati questi comprensibili difettucci di lavorazione iniziale, tutti dovranno star attenti a questa squadra, a cui - è bene ricordarlo - manca anche il miglior Hamsik. Se vince anche adesso, quando è ancora in rodaggio, figuriamoci dopo... La città di Napoli, ci scommettiamo, potrà davvero sognare in grande per la fine di questa stagione.

domenica 20 ottobre 2013

La Juventus che non ti aspetti

Volevamo uscire domani col nostro consueto Day After, ma l'eccezionalità della domenica ci impone di aprire subito una riflessione. Ovviamente, sulla partita principale della giornata, l'incredibile vittoria per quattro a due della Fiorentina sulla Juventus.

Cominciamo col dire che è stata una partita da rifarsi gli occhi. Per tutti, al di là di colori e fedi. La partita è stata bella per il suo svolgimento, per il suo improvviso sconvolgimento, e perdonateci il gioco di parole assonanti. La Juventus è stata premiata forse oltremodo nel primo tempo, con due episodi di ingenuità colossali della Fiorentina modalità difensiva, per poi pagare la legge del contrappasso nella ripresa e vedersi scaricata addosso la pioggia di tecnica e gol firmata Pepito Rossi. Un blackout clamoroso, quindici minuti incredibili date soprattutto le qualità storiche dei bianconeri di Conte, concentrazione, grinta e capacità di non mollare mai.

Proprio quello che è venuto meno in un match che pareva già archiviato, come insegnavano i campionati precedenti. Da qui il titolo: questa Juventus, forse, comincia a pagare l'eccessivo carico di tensione psicologica somministratole da Conte a partire dall'estate 2011. Non è più una squadra in grado di stritolare di forza l'avversario, non riesce più ad aggredire con le consuete veemenza e ferocia agonistica. Neanche nel primo tempo, conclusosi sullo zero a due: la partita viveva sul filo dell'equilibrio, con due squadre poco propense a svolazzi offensivi . La Juventus non azzannava come suo solito, e paradossalmente sarebbe stato meglio, per i bianconeri, non terminare il primo tempo in vantaggio. In modo da ripetere le gare con Chievo, Verona, Inter, Galatasaray, Copenaghen, e usare la rabbia dello svantaggio o della partita da sbloccare per rimettere in carreggiata il risultato. La Juve che non ti aspetti sta proprio in questo: in un'incapacità tutta nuova, per la squadra di Conte, di gestire una partita senza la necessità di essere feroci nella rincorsa, fieri nella rimonta, senza la pressione addosso. Se poi energie fisiche e mentali, ancor più prosciugate da due anni vissuti al massimo, vengono meno, ecco partite incredibili come questa.

I meriti viola, poi: la partita era compromessa, autolesionata dai due strafalcioni di Rodriguez e Cuadrado. Montella l'aveva preparata bene, per poi vedersela sfuggire di mano solo per errori tecnici. La peggior situazione possibile per una squadra di calcio Eppure, è bastato un episodio singolo per riaprire i giochi. I viola sono tornati in partita in un batter d'occhio, e Rossi ha saputo caricarseli sulle sue spalle grosse di tecnica e capacità realizzativa. La sfrontatezza di Montella, con quel demonio di Mati Fernandez e l'ingresso anche di Joaquin ha fatto il resto. Da qui l'indelebile quarto d'ora della rimonta, da qui la tripletta di Pepito, da qui il gol di un Joaquin finalmente recuperato alle sue migliori espressioni. Istantanee di un pomeriggio da sogno colorato di viola. Polaroid di un incubo per la Juventus...

sabato 19 ottobre 2013

Roma-Napoli: il day after

Cosa viene fuori dalla notte dell'Olimpico? Uno, che la Roma è una squadra terribilmente cinica, organizzata ed è prontissima a lottare per lo scudetto da qui a maggio prossimo. Due, che il Napoli non esce affatto ridimensionato dal primo scontro al vertice del suo campionato.

La partita di ieri, se riletta dai semplici almanacchi, può apparire come una sentenza pulita, secca, senza appello. Due a zero e Napoli ricacciato a meno cinque, ottava vittoria su otto partite disputate e guanto di sfida-scudetto lanciato da una Roma ora favorita principale nella corsa al titolo e contro la Juventus. I dati di fatto, di giubilo per i giallorossi, di delusione per gli azzurri, sono questi.

Eppure, c'è molto di più. La Roma ha vinto perchè ha saputo essere più squadra nei momenti topici dell'incontro. L'uscita anticipata di Totti, la sofferenza dell'ultimo quarto d'ora del primo tempo e la fase di forcing del Napoli dal primo minuto della ripresa fino al rigore fischiato a Borriello. In questi frangenti, la Roma ha sotterrato il fioretto, si è rintanata e ha offerto la miglior versione possibile del calcio all'italiana, difesa e contropiede. Senza vergogna, conscia delle proprie qualità. Da grande squadra, destinata a dire la sua fino alla fine. Per merito di Garcia, della sua organizzazione capillare, semplice quanto efficace, e poi di un gol magico disegnato da Pjanic, ovvero l'elogio al contrario a Zeman, unico uomo al mondo capace di preferirgli addirittura il buon Tachtsidis. La punizione del bosniaco ha dischiuso alla Roma le porte della partita perfetta: Napoli in avanscoperta e possibilità di imperversare in contropiede. Da qui nasce il 2-0, con un rigore che ci può stare, e da qui riparte la corsa finora perfetta colorata di giallorosso.

Il Napoli, poi. La squadra di Benitez ha perso non perchè inferiore ai giallorossi, ma perchè priva di alcuni uomini chiave e incapace di essere realmente pericolosa quando l'avversario è chiuso a riccio. Gli uomini chiave, o meglio i loro forfait, si sono visti nei momenti topici del primo tempo: senza colpo ferire a Pandev o Insigne, ma secondo voi Higuain avrebbe mai sbagliato le macroscopiche palle-gol capitate ai due compagni di cui sopra? Dubitiamo. Eppoi, Cannavaro: non sapremo mai se Britos avrebbe fatto meglio di lui (non difficile, comunque, date le due perle al contrario del capitano azzurro, colpevole di ingenuità su entrambi i gol giallorossi), ma attualmente è un giocatore non in grado di offrire un rendimento accettabile. La mancanza di un centrale di livello almeno avvicinabile ad Albiol era uno dei problemi più evidenti dell'organico azzurro, e la gara con la Roma è lì a dimostrarlo.

Di buono, per gli azzurri, il frangente che va dall'uscita di Totti fino al rigore dello zero a due. Si è visto un Napoli arrembante, dal buon possesso e dagli ottimi automatismi: eppure, sta qui il secondo problema di cui sopra. Gli azzurri arrivano facilmente ai sedici metri avversi, per poi perdersi in mille tocchetti senza risoluzione finale. Con Pandev, la squadra acquista in palleggio puro ma perde in profondità, e contro squadre che sanno chiudersi, come la Roma o il Sassuolo di qualche settimana fa, e in situazioni di pressione, questa mancanza diviene letale. Con Hamsik così in letargo, poi, la situazione diventa ancora più grama.C'è da ricomporsi per il Marsiglia e per la ripartenza in casa col Torino, e non bisogna abbattersi: di squadre forti e ciniche come la Roma, in questa Serie A, ce n'è poche.

In sintesi, i tre punti giallorossi sono giusti per quanto visto in campo. Eppure, i due gol divorati dal Napoli sullo zero a zero gridano vendetta. Per la sfida del ritorno, per tutto un campionato da giocarsi fianco a fianco, per una lotta-scudetto che, ci scommettiamo sopra, non potrà prescindere da queste due realtà.

venerdì 18 ottobre 2013

Roma-Napoli: quando l'antipasto vale più di tutto il pranzo

Due settimane dopo l'ultima volta, con  in mezzo gli insuccessi azzurri, torna finalmente il campionato. E questa, in sé, è già una notizia. Ma se poi il campionato decide di ritornare con Roma-Napoli, ovvero col botto, allora siamo di fronte ad un momento bello ed importante, non decisivo ma sicuramente indicativo nella storia di questa stagione calcistica.

La sfida tra giallorossi e azzurri vale tanto, tantissimo. In termini squisitamente pratici, perché le squadre in campo sono rispettivamente, e meritatamente, prima e seconda della classe. In termini storici, perché riapre dopo un'infinità di anni la strada di vertice a due realtà fondamentali per il calcio italico. In termini futuri, perché designa e designerà, col risultato finale, la prima vera antagonista al monopolio juventino sul campionato.

Abbiamo taciuto tanti altri motivi di interesse: la storica e malinconica (negli anni ottanta giallorossi e azzurri davano vita al gemellaggio più bello d'Italia) rivalità tra le tifoserie, il duello tra due allenatori nuovi per i nostri lidi (il Benitez dell'Inter è poco più di una parentesi), la sfida tra Florenzi e Insigne e Totti e Higuain, ovvero il nuovo che avanza e i top player su cui fare affidamento. Mille sfaccettature per un incontro-kolossal, che avrà un Maradona in più sugli spalti e indirizzerà e rintuzzerà la corsa al titolo delle due squadre che più hanno impressionato in questo primo scorcio di stagione.

L'analisi tattica fa presagire un incontro da tripla, incerto anche sullo svolgimento. Potrebbe essere scintillante e ricco di gol quanto privo di emozioni e parente stretto se non gemello di uno zero a zero. La Roma, in questa stagione, non ha mai affrontato una squadra come gli azzurri, ovvero orientata al possesso palla e agli interscambi di posizione in ogni zona del campo. E soprattutto, non ha ancora incontrato una grande squadra che offenda in questo modo: l'Inter di Mazzarri ha preso tre gol a San Siro perché non è, o non è ancora, una squadra in grado di gestire una partita. La Roma attendista di Garcia l'ha infilzata praticamente in casa sua, nelle praterie invece più affini ai nerazzurri, quelle del contropiede. Il nuovo Napoli di Benitez, invece, è parsa una squadra in grado di gestire il pallone per novanta minuti, di offendere indifferentemente al centro o sugli esterni (un peccato, in questo senso, il forfait di Zuniga) e che soffre solo quando è costantemente attaccata, vedasi Londra con l'Arsenal e il quasi dominio nella prima di Champions col Dortmund, squadra per caratteristiche simile ai giallorossi edizione 2013/2014.

Insomma, prepariamoci in ogni caso ad un grande match, che rispolvera il valore un po' scaduto della nostra Serie A e riconsegnerà al grande calcio, e presumibilmente alla lotta scudetto, due piazze reduci da troppi anni di delusioni e o vittorie solo accarezzate. L'antipasto migliore per il ritorno del campionato. Un antipasto che vale più del pranzo intero...

giovedì 17 ottobre 2013

Il ranking a capocchia e i nostri demeriti

Necessaria premessa: se siamo fuori dalle teste di serie della ventura Coppa del Mondo, tra l'altro a quasi quarant'anni dall'ultima volta, è solamente colpa nostra. Dovevamo battere una tra Danimarca e Armenia. Una sola, non entrambe. E se può passare per il due a due a Copenaghen, non passa per un altro malinconico due a due, quello del San Paolo di Napoli contro una squadra di semiprofessionisti o quasi. Paghiamo la scarsa concentrazione e l'atteggiamento tutto italiano di risparmiarsi quando le partite valgono poco, paghiamo l'idiosincrasia prandelliana alle amichevoli, paghiamo forse anche l'eccessivo carico mediatico attorno ad un solo calciatore piuttosto che ad una partita di calcio (Balotelli docet).

Paghiamo, paghiamo, paghiamo e siamo fuori dal G8 edizione calcistica. Eppure, in ogni caso, c'è qualcosa che non va. E non dipende da noi.

Leggiamo tutto d'un fiato le famose magnifiche otto: il Brasile paese ospitante, e ci sta. Poi l'Argentina di Messi e la Spagna pluricampione di tutto, e ci mancherebbe. E poi, Germania, Colombia, Svizzera, Belgio e Uruguay. Passi per i tedeschi, nonostante le fresca vittoria alle semifinali europee 2012 e le zero vittorie contro di noi da tempo immemore. Ma per colombiani, svizzeri, belgi ed uruguagi come la mettiamo?

Quali sono i criteri che li pongono davanti a noi? Nella creazione del ranking Fifa vengono assegnati punti in base a cinque parametri: il risultato, la data, l'importanza della partita (amichevole o qualificazione), il valore dell'avversario e della confederazione di appartenenza. L'Italia è quindi scesa dal quarto al nono posto, dietro anche all'Olanda, a causa degli scarsi risultati nelle ultime amichevoli (quattro vittorie nelle ultime diciassette, tanto per gradire) e per le ultime defaillance in un girone dominato e concluso da imbattuti. Un vero peccato.

Eppure, c'è da storcere il naso. La Svizzera è risultata assente all'ultimo Europeo, l'Uruguay deve addirittura ancora qualificarsi, mentre Belgio e Colombia mancano all'appuntamento mondiale, rispettivamente, da dodici e sedici anni. Eppure sono davanti, in questi fantomatici coefficienti, ai Campioni del Mondo di appena due coppe fa, ai vicecampioni d'Europa uscenti e ad una squadra che ha terminato con zero sconfitte gli ultimi due gironi di qualificazione. Una palese ingiustizia, insomma, in un conteggio ranking che di certo non sa (o non vuole...) rendere giustizia non tanto al prestigio delle varie rappresentative, ma anche ai reali valori in campo. Ok che non siamo ai nostri massimi storici come Nazionale di calcio, ma è vero pure che non pariamo essere tanto più scarsi di una Svizzera, di un Belgio o di un Uruguay. Specie se affrontati in partite dal valore reale e non solamente platonico.

Eppure, il regolamento, giusto o sbagliato che sia, è stato firmato, controfirmato ed accettato. Anche da noi, che poi ne abbiamo subito in prima persona la parte forse più meschina e controversa.

Ora, lecchiamoci le ferite e prepariamoci ad un (probabile..) girone mondiale di ferro. Che poi, dopo i recenti trascorsi sudafricani, chi ha detto che debba essere per forza una iattura?